| Era da dieci minuti che aspettava in quella sala d’attesa, e le sembrava di essere lì da giorni, tutto il discorso che si era preparata con tanta accuratezza, e che sembrava filare perfettamente nella solitudine della sua casetta, in quel luogo le sembrava di minuto in minuto diventare l’eloquio più bislacco e ridicolo della storia. Ad un certo punto, dalla porta alla sua sinistra uscì una signora sulla quarantina: “Arrivederci dottore e grazie ancora, a presto”. Si drizzò con la schiena sulla seggiola come pronta a scattare e le si avvicinò un uomo, doveva essere lui dalla foto che aveva visto su google. Pantaloni di lino tabacco, camicia a maniche corte bianca con il collo alla coreana, viso con un accenno di barba e sopracciglia folte, occhi scuri gentili, ma fermi, rassicuranti. “Prego signorina, lei deve essere Zoe, entri pure” quando sorrideva gli si formava una fossetta nella guancia sinistra. Zoe si alzò come una molla e lo seguì, per poco dalla spinta non perdeva l’equilibrio, ma riuscì per fortuna a riprendere il controllo. Lo studio era molto luminoso e il terapeuta cercava di mitigare un po’ la luce con delle tende sfondo color carta da zucchero e fantasie floreali un po’ da savana, qualche tigre tra le palme e i frangipani. Una vecchia scrivania in ebano faceva da contrasto con il divanetto moderno ma comodo in cui l’aveva invitata a sedersi davanti a lui. “Dunque mi diceva per telefono che ha già provato diversi percorsi prima di arrivare qui, deve essere stato molto faticoso” le disse con tono comprensivo. “Sì, non è stato facile doversi raccontare tutte le volte dal principio...sento che mi sono stati utili eh, ma ho come la sensazione di essere arrivata ad un punto di stallo...” “Cosa intende?” la incoraggiò inclinando il busto in avanti per farle capire che aveva tutta la sua attenzione. “Ho preso tante consapevolezze sulle mie dinamiche, razionalmente riesco a capire e vedere quello che mi tiene in scacco, ma è come se la mia parte emotiva fosse scollegata e non riesco ad attivare un cambiamento, Il Cambiamento, perché di passi avanti sicuramente ne ho fatti...” “ e a cosa pensa sia dovuto questo blocco” le chiese accarezzandosi la barba. “Credo sia dovuto al corpo… al mio corpo. Ho provato diversi indirizzi: cognitivo comportamentale, gestaltico, esistenziale, ma sento che il corpo nella cura occidentale della psiche è molto trascurato...e a me manca quel pezzo… quella connessione, sentire le emozioni nel corpo oltre che razionalizzarle...”. Lui corrucciò la fronte, erano ovviamente riflessioni che si era trovato più volte a fare e che gli avevano diverse volte messo dei dubbi sulla esaustività degli strumenti che anni e anni di studi gli avevano fornito. Era strano sentirselo dire da una paziente in modo così chiaro. “Sì, capisco bene il discorso che sta facendo e posso sentire il suo sconforto” le rimandò. Lei, sollevata da quel moto di connessione, incalzò: “mi fa piacere che capisca di cosa parlo, e mi sono permessa di portarle alcuni articoli che ho trovato dopo molte disperate ricerche sul web…” mentre pronunciava quella frase sfilò dalla borsa una bustina trasparente con alcune stampe e gliela mise sulla scrivania. Lui inforcò un paio di occhiali da lettura e diede una letta al titolo: “SPANKING THERAPY”. Dagli Stati Uniti alla Siberia… articoli scritti da autori provenienti da aree molto distanti tra loro, ma che facevano riferimento a protocolli e cornici di intervento nati intorno a una stessa pratica: la sculacciata. Non sembravano venire da una rivista scientifica, ma nemmeno da un rotocalco di intrattenimento a sfondo erotico. Il terapeuta cercò di nascondere la sorpresa con un’aria enfaticamente incuriosita e concentrata. Nascondere la sorpresa. Un’abilità a cui, negli anni, sempre meno gli era servito ricorrere… ma questo davvero non gli era mai capitato.
Lesse con attenzione le poche pagine sfilate dalla bustina trasparente, mentre Zoe era avvolta da sentimenti contrastanti: la tensione che aveva raggiunto il suo apice, ora che aveva scoperto le carte per tanto tempo tenute in un cassetto protetto dentro di sé, era intrecciata a un senso di sollievo, quasi di euforia. La paura di potersi tirare indietro all’ultimo momento era ormai alle spalle, e ora stava a lui fare la prossima mossa, prendere in mano la situazione. “Oppure mi caccia dallo studio dicendomi di non farmi più vedere…”. “Piantala Zoe, ricorda cosa hai imparato finora… qual è la cosa peggiore che può accadere?” Il vorticare dei suoi pensieri, ricalcato alla perfezione dall’instancabile intrecciarsi e sciogliersi delle dita di mani compostamente poggiate sulle cosce, venne interrotto da una voce sorprendentemente rilassata. “Zoe, capirà bene, anche viste le sue esperienze precedenti di terapia, che il metodo che ha in mente è molto lontano da ciò che solitamente costituisce il mio lavoro, e da ciò a cui un medico che lavora in questo campo viene formato”. Zoe annuiva, mentre sentiva scivolare via la componente di euforia di cui era fatto il bizzarro cocktail emotivo che l’avvolgeva. “Ecco… almeno mi manderà via con garbo…”. “Ho bisogno di conoscerla meglio, di capire meglio le sue motivazioni, com’è arrivata a trovare la forza di fare una richiesta che, sono sicuro, è stato molto difficile fare. E non ultimo, cosa l’ha portata e rivolgere proprio a me questa richiesta”. Si trovò a pronunciare queste parole, tra le tante che gli vorticavano intorno alla testa. E intorno al corpo. Erano uscite proprio quelle parole. Tra le varie direzioni che gli tiravano la camicia da una parte e dall’altra… “Liquidala con garbo”… “Ora vediamo se sei così aperto e anticonformista come ti piace pensare”… “Ma davvero ci stai riflettendo!?” … “Se non la trovassi attraente ci staresti pensando?”. E poi c'era il sottile spostamento della sua attenzione verso il suo corpo, in un modo diverso dal suo solito leggere la comunicazione non verbale. La direzione da prendere sembrava scontata, e il tempo impiegato a parlare più un modo di comunicare rispetto per la richiesta che una necessità per arrivare a una risposta. Eppure nell’aria avevano risuonato parole di apertura. Che cambiarono tutto. Il cui esito appariva a quel punto tutt’altro che scontato.
Nella mezz'ora successiva parlarono di Zoe, dei suoi desideri, dei muri e cancelli costruiti perché il mondo, con tutte le sue richieste ed i suoi regolamenti, non incontrassero quei desideri. Delle piccole e grandi soddisfazioni conquistate nella vita per abituare il palato a trarre gusto dalla realizzazione di desideri altrui. Genitori, insegnanti, amici. E una distanza da se stessa che continuava a crescere. Parlarono, e per diversi minuti dimenticarono della richiesta di Zoe. Ma i silenzi la riportavano prepotentemente al centro, con la stessa forza leggera e ostinata di un pallone da spiaggia che rifiuta di restare sott’acqua.
“Zoe, la ringrazio per la fiducia che ha riposto in me”. Il cambio di tono era evidente, e le parole dilatarono il tempo. Le orecchie di Zoe ronzavano, il cuore sembrava voler uscire dal petto per sentire meglio, e le mani… non sapeva dove fossero. “La sua richiesta mi è ora molto più chiara. Questo però non rende semplice la risposta rispetto alla mia disponibilità ad accompagnarla in questa esperienza. Le chiedo di darmi del tempo per riflettere. E documentarmi meglio. Oggi è lunedì, la chiamerò fra tre giorni”. Zoe spalancò gli occhi annuendo, senza sapere se la sensazione che sentiva sotto i piedi somigliasse più a quella di una nuvola o a quella del muschio che ricopre il bordo di un precipizio. Eppure l’atmosfera che quell’uomo emanava continuava a essere calda e accogliente. “Saranno tre giorni lunghi”. Mentre Zoe lasciava lo studio, il dott. Nardi si trovò, ancora confuso e assorto, a spostare la tenda e guardarle il sedere mentre usciva dal palazzo. L’ultimo appuntamento della giornata si era concluso da poco. L’ultimo prima di quello a cui aveva pensato continuamente negli ultimi giorni. Il dott. Nardi guardava la finestra e girava per lo studio, ricontrollando i suoi appunti e la stanza. Aveva spostato il tavolino normalmente posizionato tra la sua poltrona e il divano su cui si era accomodata Zoe pochi giorni prima. Al suo posto aveva messo la pesante sedia intagliata che normalmente teneva dietro la scrivania , mentre sul tavolino ora spostato di lato c’era, oltre ai soliti fazzoletti, una clessidra di vetro. Si sentiva teso. Eppure quelle ore passate a cercare di capire qualcosa di quel metodo così inconsueto, a cercare di riportare una scelta fatta con più istinto di quanto avrebbe voluto credere dentro i binari della razionalità in cui si sentiva più a suo agio… lo avevano fatto sentire stranamente a casa. E vitale. “Sono le otto e dieci, forse mi è andata bene e ha rinunciato” pensò con un filo di delusione che mal si conciliava con le parole di rassicurazione.
DLING DLONG
Un tuffo al cuore e una cascata di reazioni elettrochimiche. Aprì la porta e fece strada a Zoe, indicandole una delle sedie nella sala d’attesa: “Arrivo subito”. Aveva notato, con un colpo d’occhio, il vestitino verde di un tessuto leggero, lungo fino alle ginocchia, con delle bretelline sottili che lasciavano vedere collo e spalle. Zoe lo aveva salutato con la voce carica di emozione. Avrebbe potuto farla entrare subito, ma gli serviva quel rassicurante spazio di decompressione, gli serviva avere l’impressione che fosse lui a gestire la situazione, e noi la situazione a muoverlo come il personaggio di una storia già scritta. “Bene Zoe. Conosce lo studio, si accomodi sul divano”, mentre con una dissimulata disinvoltura si sedeva alla sua solita poltrona, quasi si trattasse di una situazione ordinaria. Tra loro non il famigerato elefante nel salotto, ma una pesante sedia e una clessidra, che con la stessa prepotenza attraevano l’attenzione di entrambi, anche senza doverci posare lo sguardo. Un’attenzione fatta di attesa e anticipazione.
“Dottore le chiedo scusa per il ritardo, oggi trovare parcheggio è stato ancora più difficile dell’altra volta”. Le parole fluivano più scolte del saluto all’ingresso, come se fossero parte di un copione in cui Zoe iniziava ed adagiarsi, e a ritrovarsi. Le sembrò di starsi abbandonando a una corrente… e che l’atteso cambiamento fosse iniziato ancora prima che… “Quando ci siamo conosciuti mi ha chiesto di accompagnarla in un percorso che passasse più per il corpo che per le parole” -la voce di Nardi interruppe la sua riflessione- “è ancora della stessa idea?” “Sì, assolutamente” disse Zoe prima ancora che lui potesse inspirare di nuovo. “Allora si alzi e si metta alla mia destra” disse lui mentre con movimenti decisi si spostava dalla poltrona per sedersi sulla sedia davanti a loro. Zoe si mise al suo fianco, cercando di respirare profondamente, di assaporare ogni momento.
“Credo che conosca la posizione”. Zoe esitò per un attimo, un attimo che fece svegliare per un istante Diego dallo stato in cui si trovava, a metà tra realtà e fantasia, ma prima che quel risveglio potesse produrre dei pensieri, Zoe sollevò il vestito fin sopra i fianchi, e con un unico movimento si abbandonò sulle gambe del dott. Nardi. Non poteva rischiare che, dopo tante fatiche, lui pensasse che era pronta ad accontentarsi di un’esperienza simbolica, recitata. Voleva essere chiara da subito sull’intensità che cercava, e sollevare il vestito, esponendo la brasiliana nera con cui aveva deciso di ridurre al minimo la protezione per la sua pelle, le sembrò il modo migliore per comunicarlo. La vista di quelle natiche chiare e rotonde, la sensazione del calore che dal corpo di Zoe arrivava al suo, fece sprofondare Diego ancora più in profondità nella corrente onirica che lo trascinava. Zoe sentì la mano dell’uomo poggiarsi sulla sua schiena. La face subito sentire più calma, e il suo respiro rallentò… per fermarsi all’improvviso quando sentì la sua voce: “Mi dia la mano, qui dietro la schiena”. Si presero la mano con delicatezza. “Terrò la sua mano per tutto il tempo. Quando lei scioglierà la presa e lascerà la mia mano, mi fermerò. Quando è pronta, capovolga la clessidra”. Il tempo sembrava essere esploso. Il respiro di entrambi era rapido e sottile, come avessero avuto paura, respirando troppo intensamente, di rompere i sottili fili di una ragnatela invisibile. Poi un respiro più profondo e Zoe capovolse la clessidra. Il movimento fu talmente brusco e impulsivo che dovette tenerla per assicurarsi di non farla cadere. Anche Diego fece un respiro profondo, e senza togliere lo sguardo dal sedere di Zoe, sollevò il braccio destro e fece cadere con una certa forza la mano, per poi fermarsi. Uno schiocco secco riempì la stanza, per poi sparire in un silenzio denso. Diego voleva assicurarsi della reazione di Zoe, e della sua. Capirci qualcosa. Zoe trattenne il respiro di nuovo, e un secondo colpo scosse l’altra natica, con la stessa forza. Se dopo il primo colpo il corpo di Zoe si era teso, dopo il secondo sembrava rilassarsi di più. Nel sollevare la mano una terza volta, Diego vide un alone rosa prendere il posto prima occupato dalla sua mano, sentì il calore riempirgli il palmo, e camminare verso il petto, per poi trasformarsi in una sensazione di vitalità nel basso ventre.
La mano iniziò ad abbattersi con un ritmo cadenzato e regolare sul sedere di Zoe che, man mano che il respiro si rilassava, iniziava a sentire una strana leggerezza espandersi dal suo petto, mentre un calore sempre più intenso avvolgeva il suo sedere. E mentre i colpi continuavano, gli spazi di silenzio tra un colpo e l'altro si facevano sempre più ridotti, e il rosa lasciava il posto a un rosso acceso. Il calore iniziò a diventare liquido e scorrere verso il basso, superando il confine dei glutei per riempire tutto il bacino, scorrendo, sempre più liquido, tra le sue gambe. Diego si trovò avvolto in un calore che era suo solo per metà, in un ritmo che era suo solo per metà, e sentì nascere un’eccitazione che per qualche mistero delle zone cieche nella razionalità umana... non aveva previsto. Non c’era però abbastanza lucidità per fare qualcosa di diverso dal lasciarsi andare al ritmo e al calore, che aumentavano come presi da una volontà propria, mentre il respiro di Zoe si mescolava a sommessi lamenti, e le sculacciate sembravano dettare il ritmo non solo del respiro, ma dei movimenti di tutto il corpo di Zoe. Il calore liquido continuò il suo cammino, stavolta verso l’alto, riempiendo il petto e il viso. E gli occhi lo trasformarono in calde lacrime, che cadevano silenziose dal viso di Zoe al tappeto color avorio. Diego si accorse delle lacrime di Zoe, e come sbattuto verso il basso da un’onda dopo essere stato sollevato, si fermò allentando la presa sulla mano di Zoe. La donna si accorse di quell’abbraccio che si stava facendo più morbido, più lieve, quasi etereo… e prima che potesse trasformarsi in un distacco strinse con tutta la forza che aveva la mano di Diego. Non una parola disturbava l’aria. La stretta di Zoe diede nuovo vigore alla mano di Diego, che continuò a sculacciarla alternando i due lati, lasciando che il calore riprendesse a scorrere in lei, e le lacrime a bagnare il tappeto, finché i respiri diventarono singhiozzi. Diego rallentò le sculacciate, l’intensità dei colpi si ridusse, e i singhiozzi di Zoe ritornano respiri, liberi da tante delle tensioni che li rendevano rigidi e scricchiolanti, e la sabbia finì di trasferirsi da una dimensione all’altra. Era quel calore liquido che aveva cercato per tutto questo tempo? Diego sollevò Zoe e la fece sedere sulle sue gambe, e mentre lei nascondeva il viso sulla sua spalla, lui la stringeva in una abbraccio caldo e fermo, sebbene una parte di lui ancora tremasse per l’emozione. Dopo un tempo che nessuno dei due avrebbe saputo quantificare, l’abbraccio si sciolse, e i due si guardarono, prima seri, poi con un sorriso leggermente imbarazzato. Poi semplice e sincero. Poi di nuovo seri.
Pur facendo una fatica immane a sciogliersi da quell’abbraccio, la parte integerrima da professionista che era ebbe la meglio. Con le mani prese la nuca di Zoe e la staccò delicatamente dal suo petto. “Ehi, ti va di parlare un momento?”: dopo quell’esperienza di estrema intimità che c’era stato tra loro non se la sentiva proprio di darle ancora del lei, gli sembrava stonasse. Zoe tirò su il naso e cercò di ritornare nella cornice della stanza e della situazione: “Sì, va bene” sussurò. “Che emozioni hai provato? Che pensieri ti sono passati per la testa quando hai pianto?”. La risposta non arrivò subito, ma Diego fu paziente e non si fece spaventare da quella pausa che sembrava davvero necessaria: “è stato come se mi portassi un peso, un peso enorme qui sul petto... e il dolore che sentivo, la posizione inerme in cui ero, lo facessero fluire e sgorgare dagli occhi. Come se la tristezza potesse fluire senza bisogno di nasconderla, potevo essere fragile e sentivo che c’era lei a sostenermi...” (Zoe aveva bisogno invece del Lei per riprendere quella distanza tale da poter parlare come un’adulta, e non chiudersi in un mutismo da bimba cercando di nuovo il calore del suo petto).
“Bene Zoe, ci lavoreremo su, oggi avevo bisogno di capire se riuscivo ad adempiere alla tua richiesta, come ci stavo dentro io e come reagivi tu. Sento che posso accompagnarti in questo percorso, e ti chiedo una cosa per poter procedere: vorrei che facessi parlare la tua parte bambina che ancora ti tiene legata a delle dinamiche che le sono state utili a suo tempo, ma che ora da adulta senti che ti ingabbiano. Vorrei che scrivessi in quel quaderno i comportamenti che senti ritornano e che ti partono con il pilota automatico, quelli che ostacolano il tuo cammino. Credi di poterlo fare?” Nel frattempo le aveva indicato un quadernino bianco con degli unicorni sopra, che si trovava sulla scrivania. Lo aveva preso apposta infantile, per rappresentare anche metaforicamente la sua voce da piccolina. Zoe non amava molto gli esercizi, anche in passato durante le altre terapie aveva cercato sempre, con una scusa o con l’altra, di evitare i compiti che prevedessero il mettere per iscritto pensieri o vissuti, ma decise di assecondarlo per non interrompere quel momento: avrebbe trovato una scusa per la prossima volta, e annuì con la testa. Diego la fece alzare e le sistemò il vestito in un gesto di cura che l’accompagnava fuori da quella dimensione tutta loro. Presero un altro appuntamento per la settimana seguente e lei ripose il quadernino nella borsa. Zoe uscendo non camminava, volava a un metro da terra per la felicità, le natiche ancora tiepidine le dicevano che non era stato solo un sogno, il suo desiderio si era realizzato, poi il suo pessimismo cosmico la fece scendere un po’ per non rimanere delusa. Pensava già alle possibili catastrofiche opzioni per cui il suo nuovo terapeuta avrebbe potuto rinunciare all’incarico, e con queste emozioni contrastanti rientrò a casa. Il martedì dopo eccola di nuovo davanti alla porta dello studio, il cuore riniziava a ballarle la macarena nel petto. Era lei a volerlo, e lei a sentire paura allo stesso tempo. Ovviamente il quadernino era rimasto intonso, aveva deciso per una scusa che avesse qualche fondamento di verità per riuscirla a sostenere meglio. “Buongiorno Zoe, ben arrivata” Diego le fece strada verso il divanetto. “Raccontami com’è andata questa settimana dopo la nostra prima seduta”, Zoe gli parlò non senza fatica del conflitto interno, della leggerezza che cozzava con i pensieri bui, della felicità e della paura di perderlo. Il dottor Nardi la ascoltava attentamente e le dava dei rimandi per aiutarla a scendere in profondità sotto la scorza di qui pensieri funesti, poi dopo averla rassicurata le chiese di mostrargli il quadernino. “Ah giusto volevo dirglielo subito poi mi sono scordata (in realtà sperava che se ne fosse scordato lui...) in questi giorni dopo lavoro ho dovuto dare una mano a mia sorella con le mie nipotine e non ho avuto proprio tempo”. Diego corrugò la fronte un momento, pensieroso. Anni di studio sulle espressioni non verbali gli avevano insegnato a leggere le incongruenze sul volto di chi gli stava davanti, e già la volta prima quando Zoe alla sua richiesta aveva annuito non lo aveva convinto molto: “Va bene Zoe, se è la parte adulta che parla e mi assicuri che stai dicendo la verità riguardo al non aver fatto quello che ti ho chiesto, andiamo avanti e lo compilerai per la prossima volta, altrimenti se è una tua dinamica per evitare di affrontare quello che ti si muove dentro, la gestiremo in altro modo...”. Zoe stava già per corroborare la sua versione con tutta l’assertività di cui disponeva, ma si fermò un attimo prima di sputarla fuori: era lì perché aveva bisogno di lui e lui l’aveva ascoltata e accolta. “mmmhm… no, credo sia la mia parte bambina che parla...” rispose onesta sfuggendo il suo sguardo e cercando rifugio tra le tigri delle tende. “Bene e noi non vogliamo lasciarla inascoltata, vero? Alzati e prendi la spazzola di legno che trovi su quella mensola, per piacere.” Nei tre giorni precedenti alla telefonata, Diego a differenza di Zoe aveva fatto i compiti... si era informato sul mondo, nascosto ai più, in cui Zoe lo aveva invitato. Aveva pensato di attrezzarsi con strumenti terapeutici a lui più familiari -come un quaderno per gli appunti- contestualizzati al tipo di atmosfera di cui Zoe sentiva il richiamo, e con strumenti a lui decisamente meno familiari, ed è di questo secondo gruppo che la spazzola faceva parte. Non pensava che l’avrebbe già usata, ma capiva di essere ad un bivio: una strada portava indietro e l’altra verso l’ignoto, ma doveva definire le regole da subito perché quell’ignoto prendesse una forma efficace ai fini di quello che si erano prefissati. Zoe si alzò e un po’ agitata eseguì quello che Diego le aveva chiesto. Diego si sedette sulla seggiola dedicata e l’aiutò a sistemarsi sulle sue gambe, questa volta bloccandogliene una in mezzo alle sue, Zoe colta in fallo era intimidita, e spettò a lui “l’onere” di sollevarle la gonna, non senza un insolito brivido di piacere che ora non aveva tempo di analizzare... le fece scendere una serie di colpi per riscaldarle il sedere, solo dopo parecchi colpi Zoe iniziò ad emettere qualche flebile mugolio. Poi, quando sentì che la parte era abbastanza riscaldata (si era ben documentato sulla cosa accedendo a fonti non proprio ortodosse…), allungò il braccio per prendere la spazzola che Zoe stringeva ancora con una mano, mentre l’altra l’aveva usata per puntellarsi a terra. Senza bisogno di dire nulla gliela porse e gli strinse l’altra come da protocollo. “Ora fai un bel respiro Zoe”. Girò la clessidra, le abbassò le mutandine cercando di non mostrare esitazione, e dopo averle dato qualche carezza, iniziò a colpirla con il retro della spazzola. Dava colpi secchi dove il culo era più carnoso, era la prima volta che usava uno strumento per colpire un sedere (due pacche a pecorina con la mano gli era ovviamente già capitato di darle). Era come incantato da come la spazzola affondava nella carne lasciando un segno più rosso e dai gridolini di Zoe, la quale cercava di resistere dal lasciargli la mano. Ogni tanto le arrivavano dei colpi tra le due natiche, all’altezza del buchetto, che le facevano partire un’onda di piacere e dolore per tutto il corpo. Poi di nuovo un colpo secco più forte. Diego era come ipnotizzato dalla danza delle sue anche, della carne che riaffiorava dopo ogni colpo, mentre le sue gambe dovevano stringere più forte per farle tenere la posizione. Non si era nemmeno reso conto che l’ultimo granello di sabbia si era già depositato nella clessidra. Poi, vedendo che il sedere iniziava a diventare davvero molto rosso, decise suo malgrado di terminare. Zoe singhiozzava di nuovo, questa volta come una bimbetta che è stata messa in castigo. Le accarezzò le natiche in fiamme, stando attento a non andare nelle zone più intime: “Sei stata bravissima…”. Zoe gli strinse di nuovo la mano, questa volta per dirgli grazie senza parlare: Allora cosa ne dici? Lo compiliamo questo bellissimo quadernino con gli unicorni?” “Sì” borbottò Zoe, non ancora rientrata nei suoi panni adulti, e andava bene così, poteva permetterselo lì. Quelle pareti, e Diego, erano contenitive ma anche sicure. Scalciò via le mutandine e si mise a cavalcioni su di lui in modo impetuoso, come a prendere qualcosa che le spettava di diritto. A Diego, un po’ sorpreso, scappò un sorriso: “Ok, ok! Ora non ti chiederò più nulla, prenditi il tuo tempo”. E anche lui si diede modo di far depositare tutte le emozioni che vorticavano nel suo corpo in quell’abbraccio stretto. Emozioni -e sculacciate- continuarono a vorticare settimanalmente per diversi mesi. Nel corso delle sedute l’arsenale del dott. Nardi si era arricchito: quella che sembrava l’anta di una qualunque libreria, custodiva invece, appesi a dei ganci su uno dei lati interni, un tawse di pelle rosso, una sottile canna di vimini, un paddle di legno. E sull’altro lato gli strumenti che richiamavano a un mondo più regressivo: la spazzola con cui Zoe ha fatto la conoscenza durante la loro seconda seduta, un ampio e robusto cucchiaio di legno, una cintura di cuoio. Zoe e Diego avevano avuto modo di conoscere il suono, l’atmosfera e -Zoe in particolare- il tipo di impatto che ciascuno aveva. L’impatto sulla pelle, e quello sulle pareti più interne del suo guscio. L’impatto solido e quasi stabilizzante del paddle. Quello elettrico e frizzante della canna. Quello bruciante, sonoro e avvolgente della cintura. E con ognuno di loro avevano scoperto una nuova relazione con le diverse parti dello studio: la scrivania, i braccioli della poltrona, il divano, le pareti. Ma ogni volta, il ritorno al porto sicuro veniva da quell’abbraccio senza tempo, con la sabbia ferma ed il respiro profondo, la testa di Zoe sotto il collo di Diego.
“Devo chiederti scusa Zoe. Pensavo di poter essere il dott. Nardi che apre gli orizzonti del suo lavoro. Invece hai conosciuto Diego, e una parte di lui l’ho conosciuta per la prima volta anche io, con te”. “Allora non era il dott. Nardi che cercavo, ma Diego!” si sentì dire Zoe con un tono frizzante e provocatorio in cui faticava a riconoscersi. “Non ti ho mai chiesto una cosa. Ma alla fine quanto dura quella clessidra!?” “Tutto il tempo necessario ad arrivare qui”. E se la strinse forte al petto.
Edited by Saliceblu - 5/7/2022, 14:57 |
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