Lacci & Sculacciate

Votes taken by ProfBlack

  1. .
    Ciao You e grazie per il benvenuto!

    In qualunque momento arrivi fa sempre piacere... :-)

    Tanto più se l'apprezzamento proviene da una collega (in molti sensi) così attiva nella "conduzione" di questa community (ne approfitto per ringraziare te e gli altri "utenti attivi" e amministratori per questo!).

    Buona domenica! :-)
  2. .
    Questo racconto è veramente ben fatto! Stai creando un'attesa eccitante e descrivendo in modo realistico le emozioni della protagonista, il che non è per niente facile!
    Complimenti :-)

    PS apprezzo anche (in controtendenza con alcuni altri commenti :-) ) che il potenziale spanker sia descritto in modo quasi "repellente" agli occhi della ragazzina (perché sia chiaro che la punizione che si merita non è "piacevole" da nessun punto di vista.... almeno per ora! sono curioso di scoprire come evolveranno le emozioni di Anna :-) )
  3. .
    Grazie!
    Mi fa piacere che apprezzi :-)
  4. .
    Chiara non poteva credere di trovarsi in quella situazione, dopo che era stata così attenta per quasi tutto il mese… si sentiva il viso in fiamme e i suoni le arrivavano attutiti, come se avesse un cappuccio pesante, mentre si alzava con le ginocchia tremanti dalla sedia, gli occhi di tutta l’aula fissi su di lei.

    Era arrivata alcune settimane prima, a quel master per cui aveva fatto domanda senza neanche sperarci: sei mesi in un prestigioso centro studi, tra le montagne del Canton Ticino (le lezioni in inglese, ovviamente, ma almeno per strada capivano l’italiano). Un ambiente diversissimo da quelli a cui era abituata, e tutti sembravano dare per scontato che si vivesse come in un collegio inglese di inizio ‘900: dopo una settimana, Chiara aveva scoperto -con un sussulto di paura e eccitazione che l’aveva lasciata letteralmente senza fiato- che questo includeva anche l’uso di punizioni corporali per un gran numero di mancanze legate al rendimento o al comportamento. Lo aveva scoperto quando un ragazzo seduto una fila davanti alla sua aveva suggerito una risposta mentre il professore tormentava una ragazzina con domande incalzanti sul diritto consuetudinario. Quello se ne era accorto, e aveva immediatamente ordinato al ragazzo di andare nella stanza del custode, consegnandogli un bigliettino scritto in fretta. Il ragazzo aveva cominciato a giustificarsi, ma si era zittito immediatamente all’occhiata del professore, aveva preso il biglietto e era uscito… La lezione era continuata (per fortuna la tortura dell’interrogazione alla ragazzina era stata dimenticata) e una delle compagne di Chiara, chinandosi verso di lei, le aveva sussurrato che il custode avrebbe dato una bella lezione a quel tipo che si era fatto sorprendere.
    “In che senso?” aveva sussurrato lei, curiosa. “Lo frusterà, sul… be’, hai capito, senza pantaloni...” la sua compagna si era imbarazzata, per poi tacere immediatamente quando il professore si era voltato verso la classe.
    Chiara non poteva crederci… Dieci minuti dopo il ragazzo era tornato, aveva consegnato il biglietto al professore, e si era seduto al suo posto: aveva il viso rossissimo e si muoveva in modo stranamente rigido, lo aveva visto sbirciandolo di nascosto, mentre si fingeva presissima a prendere appunti come tutti gli altri.

    Da quel giorno, il timore di subire una punizione del genere (un timore che le toglieva il fiato per la vergogna e la paura ogni volta che cominciava a immaginare la scena) l’aveva convinta a comportarsi in maniera ineccepibile. Chiara studiava come una matta tutto il giorno, era sempre attenta e compostissima in classe, quasi non osava respirare a lezione.

    E adesso, era successo quel disastro! Era colpa di Luca, che l’aveva chiamata quella mattina, dopo colazione, dopo due settimane di silenzio, e l’aveva fatta ridere raccontandole tutto quello che succedeva tra i suoi compagni di anno, nella vecchia università, e tutti i pettegolezzi napoletani degli ultimi giorni… E così, aveva dimenticato di spegnere il cellulare, violando una delle regole più rigide di quel posto, e che non aveva mai, mai trascurato nei giorni precedenti!
    E a metà della seconda ora, proprio mentre S., il professore più pignolo e scostante con gli studenti stava spiegando un concetto particolarmente intricato, il telefono aveva cominciato a suonare, con uno squillo che nel silenzio dell’aula aveva fatto l’effetto di una bomba!
    Lei si era precipitata a spegnerlo, ma ormai tutti si erano voltati dalla sua parte, e S. si era interrotto: persino da dove era seduta, Chiara vedeva quanto stava diventando rosso in faccia il professore, e come stesse prendendo fiato…
    “Lei!” gridò, “si alzi immediatamente!”
    “Professore… mi scusi… io avevo...” balbettò Chiara, ma a bassa voce…
    “Silenzio”, adesso S. parlava in tono normale, e aveva ripreso il colore abituale, ma la stava guardando con l’espressione di un felino che ha chiuso la preda in un angolo. “Adesso daremo una piccola lezione a lei e a tutte le sue compagne” (perché parlava solo al femminile, ebbe il tempo di pensare Chiara, come se i ragazzi non usassero i telefoni!), “scenda immediatamente qui”

    Sentendosi le gambe rigide, e la testa che girava, Chiara non poté far altro che passare davanti al ragazzo che le sedeva accanto (aveva manovrato a lungo per sedersi vicino a lui, dopo averlo notato qualche giorno prima… ma adesso non era consapevole se fosse lui, o un altro) e scendere lentamente fino alla lunga cattedra davanti alla lavagna.
    S. la aspettava in piedi, con un’espressione rabbiosa (ma Chiara avrebbe notato anche il suo sguardo eccitato se non fosse stata così spaventata e turbata).
    “Questa volta non servirà disturbare il custode, vero?” domandò con falsa cortesia il professore, e senza aspettare una risposta aggiunse “Ci penserò io a ricordarle le regole, a cui evidentemente non si è abituata nel… posto da cui viene… ”
    Chiara cercò di dire qualcosa, lottando con la gola secca, ma lui la zittì con un gesto rabbioso, e le ordinò di girare attorno alla cattedra. La ragazza si trovò girata verso l’aula, con cinquanta paia di occhi fissi su di lei: non si sentiva il minimo rumore, tranne i passi di S. che lentamente girava anche lui attorno alla cattedra per mettersi al suo fianco.
    Poi posò una mano sulla spalla di Chiara, che la sentì stringere dolorosamente, e spingere in basso: “Chinati, giù sulla cattedra” sibilò il professore, dandole per la prima volta del tu. Con la testa del tutto annebbiata, Chiara si piegò fino a appoggiare i gomiti sul tavolo, ma S. spinse ancora finché non fu schiacciata con il busto sulla scrivania. Dovette allargare un po’ le gambe, per piegarsi cosi’ tanto, e sentì il bordo del tavolo premere sui fianchi: il culo finì sollevato e teso, in quella posizione.
    Con un gesto rapido, S. sollevò la gonna della ragazza, rovesciandola sulla schiena, e bloccando con un gesto rapido e esperto la mano con cui lei cercava istintivamente di ricoprirsi.
    “Ferma!” intimò a bassa voce, “oppure diremo al Direttore che ti sei rivoltata contro un docente, e allora sì che verrai punita come si deve”.
    La minaccia, e ancor più il tono con cui era stata pronunciata, gelarono completamente la ragazza, che non pensò più a muoversi o ribellarsi, concentrata solo nel continuare a respirare e nel serrare gli occhi per non vedere l’intera aula che assisteva affascinata alla scena.
    Subito dopo sentì la mano di S. che tirava verso l’alto le sue mutandine, infilandole di più nel solco e scoprendole le natiche… S. si mosse e Chiara, sempre a occhi chiusi, sentì il rumore dei passi che si allontanavano verso destra, poi un cassetto che si apriva, e infine i passi che tornavano, per finire con la mano del professore saldamente appoggiata alla sua schiena, per tenerla giù, schiacciata sul legno.

    “Prendete nota!”, la voce del professore si alzò, mentre si rivolgeva alla classe, “cercate di ricordare che i cellulari vanno lasciati in camera, quando siete a lezione! Hai capito anche tu, signorina?” concluse, a voce più bassa ma sempre chiaramente udibile da tutti, e subito dopo Chiara sentì uno schiocco basso e forte, seguito da un bruciore intenso su entrambe le natiche, mentre veniva spinta contro il tavolo dalla violenza del colpo.
    Il culo inizio immediatamente a bruciarle in modo insopportabile, ma subito un secondo colpo la arrivò sulla natica destra, seguito da un terzo dall’altra parte. Gli studenti potevano vedere che S. stava usando una larga e pesante paletta di cuoio scuro per sculacciare la loro compagna, e più di uno rabbrividiva sentendo il rumore -imprevedibilmente intenso- dei colpi sulla pelle.
    Chiara stringeva le labbra, istintivamente, ma S. si fermò dopo il terzo colpo per chiederle, con voce calma: “Ho chiesto se hai capito quello che ti ho detto...” e siccome lei non riusciva a dire niente, la colpì veloce e rabbioso due volte, strappandole un gemito involontario.
    Chiara sentì le lacrime che le riempivano gli occhi, e non sapeva se fosse più per il dolore -ormai molto intenso e diffuso su tutto il culo- o per la vergogna di quello che stava succedendole. Ma si fece forza, quando sentì S. che alzava nuovamente il braccio e cercò di dire “Ho capito, professore”, ma la voce non uscì, e lui ricominciò a picchiarla, questa volta con più calma e mirando bene per coprire tutto il culo e la parte alta della cosce. Si fermò dopo una decina di colpi, mentre Chiara, senza accorgersene minimamente, stava singhiozzando forte. S. aspettò, tenendo la mano sulla sua schiena, finché il pianto si fu calmato e domandò ancora: “Hai capito, allora?” e a quel punto lei disse abbastanza chiaramente “Sì, ho capito… per favore, ho capito, non lo faccio più, non lo faccio più...” e ricominciò a piangere, benché il dolore fosse subito diminuito quando lui aveva smesso di colpirla.
    “Bene”, commentò S. levando la mano, “ora alzati, e ricomponiti, che abbiamo già perso abbastanza tempo”.

    Chiara non seppe mai come avesse fatto a sollevarsi, e poi a risalire verso il suo posto, convinta che S. non le avrebbe mai permesso di lasciare l’aula. Senza guardare nessuno si sedette, senza poter trattenere una smorfia di dolore che i suoi vicini percepirono chiaramente, e prese la penna nella mano tremante… S. ricominciò a spiegare come se non fosse successo niente, mentre lei cercava di trattenere le lacrime e fingeva di prendere appunti. I suoi vicini sembravano trattenere anche loro il respiro, evitando di guardarla… solo verso le fine della lezione, quando sembrava che l’attenzione verso di lei si fosse un po’ allentata, Chiara sentì la mano leggera del ragazzo che le sedeva accanto che le si posava sul braccio e la stringeva leggermente.
  5. .
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    Dopo la scomparsa dei suoi genitori, Sylvie era stata accolta nella casa degli zii materni, che con le loro non floride finanze, e avendo da accudire un buon numero di figli e figlie in età da marito, non avrebbero potuto provvedere largamente alla sua istruzione, se non fosse stato per la benevola assistenza di un vecchio amico e compagno di studi dello zio.
    Sir John Newark, ben noto per i suoi studi sulle lingue e religioni orientali, aveva ricoperto diversi incarichi come delegato del Governo nei possedimenti orientali dell’Impero, e si mormorava che nei suoi frequenti soggiorni in Asia avesse assimilato usi e abitudini che in patria sarebbero sembrati stravaganti, se non francamente criticabili. In ogni caso, questi pettegolezzi non avevano intaccato il prestigio di cui godeva nei circoli governativi, né agli occhi degli zii di Sylvie, colpiti forse in ugual misura dalla ricchezza che aveva ereditato.
    Sir John si era mostrato subito colpito dalla bellezza di Sylvie, non meno che dal suo carattere schietto e aperto, a differenza di zii e insegnanti che, in ossequio alle rigide convenzioni dell’epoca, lo ritenevano piuttosto sfacciato e ribelle. La stessa Sylvie, in sua presenza, aveva fin dall’inizio sentito un imbarazzo e una specie di timore che la rendevano insolitamente accondiscendente… E in parte per questa incapacità di opporsi, ma soprattutto perché non avrebbe potuto aspettarsi una sistemazione più conveniente, date le circostanze, la ragazza aveva accettato la proposta di matrimonio che Sir John le aveva presentato, quando lei era rientrata dal College dove aveva studiato grazie al suo sostegno fino a 19 anni.

    Cinque mesi più tardi, Sylvie non avrebbe ancora saputo fare un bilancio sereno della sua nuova vita. Nelle lettere alle sue vecchie compagne di Collegio, descriveva allegramente e con spirito la sua nuova condizione di giovane moglie di un ricco eccentrico, che passava quasi tutto il tempo nel suo studio con libri e sigari, lasciandole una grande libertà durante le giornate, ma concedendo poco alla vita sociale e ai ricevimenti, su cui fantasticavano tanto quando chiacchieravano a bassa voce nel dormitorio della scuola. Ma non raccontava a nessuno del vago disagio che provava davanti a Sir John, quando la scrutava sornione a cena, o nelle rare uscite comuni, né il timore che le incutevano i servitori asiatici di cui suo marito si era circondato, sempre estremamente rispettosi, ma imperscrutabili e severi. Naturalmente non avrebbe raccontato a nessuno, amiche o tantomeno la zia, quello che provava quando suo marito la raggiungeva nella sua stanza, dopo che le lampade della casa erano state spente. Sylvie non era arrivata del tutto impreparata alle notti coniugali (le famiglie si facevano molte illusioni, riguardo all’ambiente delle scuole femminili! e le ragazze ascoltavano, indagavano e parlavano ininterrottamente di sesso. sia pure senza usare mai la parola precisa...). E Sir John era stato gentile con lei, non le aveva fatto male, a parte le prime volte quando comunque era così agitata e ansiosa da non rendersi conto di niente, e passava molto tempo a accarezzarla e tranquillizzarla, prima di stendersi sopra, o sotto di lei… Sylvie non poteva saperlo (le conversazioni notturne del Collegio non erano state così dettagliate!) ma suo marito dava prova di un’insolita fantasia e attenzione mentre facevano l’amore, sicuramente grazie a quanto aveva appreso nei suoi soggiorni orientali (e anche in questo caso, fortunatamente Sylvie non si domandava mai come e dove lo avesse imparato). Comunque, il sesso coniugale, per quanto non doloroso e disgustoso come nei timori di molte ragazze della scuola, non era mai arrivato neanche lontanamente a procurarle le sensazioni e la felicità momentanea che otteneva quando si toccava da sola, sotto le lenzuola del suo letto (anche questo lo aveva imparato nei dormitori del Collegio).

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    Poi successe qualcosa che cambiò improvvisamente tutto.
    Capitò un giorno in cui Sylvie si era svegliata di umore scontroso e sgarbato, e aveva trattato male Indah, la governante, una donna altera dai tratti orientali, che la squadrava sempre in silenzio e, così le pareva, con aria di superiorità. E in seguito era stata decisamente scortese con un ospite del marito, un anziano pomposo e francamente noioso, che però Sir John teneva in grande considerazione per motivi politici.
    Nel pomeriggio, un’ora prima di cena, Sir John l’aveva mandata a chiamare da un cameriere, pregandola di raggiungerlo in biblioteca: Sylvie, ancora di cattivo umore, aveva perso tempo prima di obbedire, ma entrando nella stanza, e vedendo l’espressione accigliata e dura del marito aveva improvvisamente perso la sua sicurezza. Sentendo la bocca farsi secca, e al contrario le mani inumidirsi di sudore, tanto che senza rendersene conto le asciugò sui fianchi, si fermò davanti a Sir John che appoggiò il sigaro, e le disse con voce pacata:
    “E’ giunto il momento, mia cara, di completare la tua educazione con quegli elementi che le tue scuole non potevano darti… Ti ho scelta non a caso, ma per renderti una compagna utile non meno che piacevole, e da oggi inizierai il tuo nuovo… addestramento”.
    Sylvie trasalì e alzò vivacemente gli occhi verso il marito,
    “I cavalli si addestrano!” protestò, ma la voce le uscì meno squillante e sicura di quel che avrebbe voluto,
    “Anche le ragazzine! e a volte con gli stessi strumenti!” abbaiò Sir John, troncandole il respiro con la sua rabbia improvvisa.
    Ma subito tornò calmo, e aggiunse:
    “Adesso seguirai Indah, che ti condurrà da Mr. Arung, un mio collaboratore che ancora non hai conosciuto. Lui si è occupato -egregiamente- di...” e qui calcò la voce, con un sorriso ironico, “...addestrare tutto il personale di casa e dell’ufficio, e ora si occuperà, con tanto maggior impegno, anche di mia moglie.”
    Sylvie non riuscì a replicare niente, gli occhi bassi e le guance in fiamme, e dopo una breve pausa Sir John riprese:
    “Arung è indonesiano, come la maggior parte del mio personale, e utilizzerà, con il mio pieno consenso, i metodi tradizionali del suo paese per inculcarti le regole di comportamento adatte. Mi aspetto che tu gli obbedisca in tutto, e sappi che non tollererò nessuna insubordinazione, sono stato chiaro?”
    E siccome lei non rispondeva, le prese il mento, e con più gentilezza di quanta ne contenessero le sue parole la costrinse a alzare il viso, e guardandola fisso negli occhi ripeté:
    “Sono stato chiaro?”
    Sylvie cercò di assentire, ma lui la tenne ferma finché non rispose a voce bassa ma intelligibile:
    “Sì, John… ho capito”
    “Bene!”, concluse lui, dirigendosi in fretta alla scrivania. Lì, tirò il cordone del campanello e si sedette indaffarato, senza più guardare la moglie.
    La porta si aprì immediatamente e Indah aspettò in silenzio, finché Sylvie si riscosse e, con gli occhi bassi, si costrinse a raggiungerla. La governante si voltò e la precedette, senza una parola, fino all’ala della casa destinata agli uffici e agli alloggi del personale, e infine si arrestò davanti a una porta. Durante la loro silenziosa processione, avevano incrociato diverse cameriere e un valletto: Sylvie aveva cercato di mantenere un’aria altera guardando fisso davanti a sé, ma non le erano sfuggiti gli sguardi eccitati delle cameriere, e il sorrisetto che era comparso per un attimo sul volto del valletto.

    Indah bussò una volta, e senza attendere risposta aprì, facendosi da parte e lasciando entrare Sylvie, quindi la seguì chiudendosi la porta alle spalle.
    Era una stanza ampia e luminosa, nonostante le tende che impedivano la vista dalle ampie finestre, il pavimento interamente coperto di spessi tappeti neri e rossi; un lungo tavolo di legno occupava la parete di fondo, e diverse sedie con alti schienali erano appoggiate alla parete. Al centro della stanza si trovava un rialzo di legno, quasi un piccolo palcoscenico -pensò confusamente la ragazza- con una specie di sgabello a quattro gambe foderato di cuoio, alto e largo. Accanto, un alto vaso di ceramica, decorato con gli esotici motivi floreali e i draghi colorati che si notavano in tutta la casa: dal vaso spuntavano una decina di rametti di betulla. Alle pareti, oggetti più familiari ma allo stesso tempo sinistri, diverse corde arrotolate attorno a pioli, alcune fruste e frustini da equitazione, cinghie di cuoio e lunghe spatole di legno decorato.
    Accanto al tavolo, un uomo alto dall’età indefinibile (Sylvie non riusciva mai a capire l’età degli orientali dalla pelle più o meno scura che frequentavano suo marito), vestito con il tradizionale costume indonesiano, che lei aveva visto sugli ospiti del marito in alcune occasioni, casacca scura su pantaloni di lino, bianchi.
    “Io sono Arung, Miss Newark” disse l’uomo, con un accento sorprendentemente corretto, la voce grave, “Suo marito le ha già detto cosa ci aspettiamo da lei. Sappia che io obbedisco solo a Sir Newark e tutto ciò che farò è su suo ordine, e con il suo permesso.”
    Detto questo si raddrizzò e mosse alcuni passi verso di lei, aggiungendo:
    “Per prima cosa, Miss, ogni volta che entrerà da me, le chiedo di lasciare le scarpe all’ingresso”, e Sylvie si accorse in quel momento che l’uomo era scalzo, e anche Indah, rimasta in piedi accanto alla porta, aveva tolto le scarpe appoggiandole vicino al muro. Rimase muta e immobile per qualche secondo, ma nessuno si mosse e disse niente, finché si decise a chinarsi e sfilò le scarpe, posandole accanto a quelle della donna. “Anche quelle” aggiunse l’uomo, indicando le calze bianche della ragazza;
    “Cosa...?” disse lei, confusa, ma Indah le si inginocchiò accanto, infilando la mano sotto la gonna e abbassò le calze, costringendola a sfilarle mentre barcollava cercando di restare in equilibrio.
    “Venga qui”, disse Arung, con la solita voce bassa, evidentemente abituato a essere ubbidito senza bisogno di gridare.
    A Sylvie sembrava di muoversi in sogno, da quando aveva parlato con suo marito le guance erano in fiamme e la testa le girava… Senza averlo deciso, così le parve, si trovò accanto a quell’uomo, il tappeto caldo sotto i piedi, una sensazione mai provata di vuoto allo stomaco.
    Arung le prese il gomito (e lei si stupì,in una parte della mente che sembrava separata dal resto e osservava distaccata quella scena, di accettare quel contatto da parte di un… inserviente? servo? Arung non sembrava niente di questo) e la spinse con decisione per farla salire sul rialzo di legno, accanto allo sgabello.
    “Adesso la punirò per il comportamento di oggi, Miss, come ha ordinato Sir Newark. La prego di non creare problemi, perché non le servirebbe a niente, ma peggiorerebbe solo la punizione. Si pieghi, adesso!” concluse bruscamente, appoggiando la mano sulle scapole della ragazza e spingendola con forza a chinarsi sullo sgabello, con lo stomaco appoggiato all’imbottitura di cuoio, le mani aggrappate alle gambe di legno e le punte dei piedi che a stento toccavano terra.
    Sylvie sentì che l’uomo le sollevava la gonna, ripiegandogliela sulla schiena… poi lui disse qualcosa, in una lingua che non comprese, e sentì i passi di Indah che si avvicinavano, e le mani della donna che le scioglievano i lacci della biancheria.
    “No… no…” avrebbe voluto gridare, ma le uscì un sussurro… e cercò di rialzarsi, ma subito la mano di Arung le calò sulle spalle, spingendola giù.
    “Stia ferma, o la dovrò legare, e la frusterò anche per questo!” per la prima volta lui alzò la voce, bloccandole il respiro e lasciandola paralizzata dalla paura… intanto Indah aveva finito, e con uno gesto deciso le strappò la biancheria verso il basso, lasciandola nuda dalla vita in giù.

    In tutta la sua vita, Sylvie non si era mai trovata in quella condizione, nemmeno davanti a persone conosciute… al pensiero che due… indigeni, e servitori in casa sua, la stavano vedendo così si sentì travolgere dalla vergogna, e cominciò a piangere in silenzio. Senza badarci, Arung le girò attorno, prese uno dei rametti dal vaso e lo scosse spargendo una corona di goccioline d’acqua; fece sibilare la sferza nell’aria per un paio di volte, poi si mise dietro la ragazza e la colpì con forza, di traverso alle natiche.
    Il dolore fu così improvviso e bruciante che Sylvie ne rimase stupita, prima ancora di sentirlo… ma subito il bruciore la costrinse a gemere forte, mentre il secondo colpo già arrivava, un po’ più in basso… Sylvie smise subito di contare i colpi, e dopo il terzo o quarto cominciò a scalciare senza nemmeno rendersene conto, anche se continuava a stringere spasmodicamente le gambe dello sgabello. Presto i gemiti divennero vere grida, Sylvie aveva completamente dimenticato Indah e gli altri servitori, che dietro la porta potevano certamente sentirla, e tutto il suo mondo era ridotto al sibilo della sferza sovrapposto alle sue grida, e al dolore bruciante e insopportabile che si diffondeva dalle sue natiche e dalle cosce che venivano colpite di tanto in tanto.
    Quando Arung si fermò, con il respiro leggermente affannoso, le grida si trasformarono in pianto, via via più silenzioso. Dalle reni a metà coscia, la pelle della ragazza era segnata da decine di vistose righe rosso scuro, concentrate soprattutto al centro delle natiche, dove il bruciore sembrava continuare a aumentare anche dopo che i colpi erano cessati.

    “Resta ferma, Miss, non ho ancora finito la mia lezione...”, terrorizzata da quelle parole, Sylvie non si accorse nemmeno che le aveva parlato con il “tu”, una sconvenienza che l’avrebbe indignata solo un’ora prima… Adesso, invece, si scoprì a piagnucolare come una bambina, pur senza avere il coraggio di muoversi:
    “No, per favore, per favore… non ce la faccio più, ho capito… per favore Arang...”
    Lui sbuffò brevemente, come se trattenesse una risata, “Dovrò insegnarti anche a pronunciare bene il mio nome, ma ci sarà tempo di imparare. Adesso...” e pronunciò alcune parole straniere, al che Indah si mosse, staccando dalla parete una cinghia di cuoio e porgendogliela.
    Senza più badare alle preghiere della ragazza, Arung le appoggiò una mano sulla schiena, tenendola ferma contro lo sgabello, e cominciò lentamente e con metodo a colpirle le natiche, che immediatamente si coprirono di vistosi segni rosso scuro… I colpi non erano particolarmente forti, ma la pelle di Sylvie era già così segnata dalle sferzate che bastarono per farle perdere ogni controllo. Ma Arung riuscì senza sforzo a tenerla ferma finché non decise di smettere.

    Sylvie non si rese conto che i colpi erano cessati finché non sentì la cinghia cadere a terra: anche allora, rimase ferma cercando di soffocare i singhiozzi, congelata dal timore che la punizione riprendesse. Ma dopo pochi secondi, sentì invece la mano dell’uomo posarsi sulle sue reni, e abbassarsi su una natica e poi sull’altra: non sembrava certo una carezza, quanto piuttosto il gesto di un artigiano che valuta il lavoro appena finito, levigandolo.
    “Va bene, per oggi… vai via, adesso”, e i suoi passi risuonarono sulla pedana mentre l’uomo scendeva.
    Sylvie si accasciò sulla pedana di legno, piangendo silenziosamente. Gli altri due rimasero impassibili a guardarla finché si calmò, e infine Indah la aiutò a ricomporre il vestito e indossare le scarpe. “Asciugati gli occhi, signora” le disse Indah, a bassa voce, e per un attimo Sylvie si sentì assurdamente grata di sentire una voce diversa, prima di ricordare che Indah l’aveva vista durante la punizione, e al pensiero che l’indomani l’avrebbe dovuta incontrare per casa si sentì svenire dalla vergogna. Ma la donna si affrettò a prenderla per un braccio e, dopo aver salutato Arung con un rigido inchino, a cui lui rispose nello stesso modo, aprì la porta e spinse fuori Sylvie.
    Il tragitto fino alla sua camera fu un altro incubo per la ragazza, che a ogni passo sentiva il dolore pungente dalla schiena alle gambe, e non poteva alzare lo sguardo sui camerieri che incontravano, e che certamente sapevano…

    Quella sera non scese a cena, mandando a dire che non si sentiva bene, e nessuno venne a cercarla. Ma appena le luci si spensero, la porta si aprì e Sir John si accostò al letto.
    “Allora, mia cara, hai imparato bene la lezione?” le domandò in tono ironico,
    “Fammi vedere...” e senza badare alle sue proteste, la costrinse a sollevare la camicia da notte. I vistosi segni che coprivano le natiche della ragazza gli piacquero molto, e volle accarezzarli a lungo, incurante dei singhiozzi di Sylvie. Poi le sfilò la camicia (raramente lei era rimasta completamente nuda con lui) e la fece stendere, cosa che provocò un altro lamento che lo divertì e la prese come le altre volte… ma questa volta l’azione durò a lungo, e lentamente Sylvie sentì con vergogna e stupore che il suo corpo cominciava a muoversi assieme a quello che le stava sopra… arrivando quasi a raggiungere il piacere che lei provava da sola… appena se ne rese conto, la vergogna di questo pensiero bastò a interrompere la trance in cui era caduta, e ricominciò a sentire il dolore della punizione.
    Se Sir John si era accorto dell’effetto che stava per avere su sua moglie, non lo diede a vedere. Quando ebbe finito, come al solito si abbandonò qualche minuto ansimando soddisfatto sui cuscini, per poi alzarsi, inchinandosi ironicamente e salutando Sylvie:
    “A domani, cara, e preparati alle prossime lezioni”.
  6. .
    Ah, allora ci sono professori severi e maneschi anche nelle tue fantasie, BlackHumor! :)

    Grazie per averla condivisa... e -te lo dico da collega scrittore inesperto e fancazzista- non ti preoccupare dello stile o degli eventuali errori di battitura, la cosa che conta è appunto raccontare le situazioni divertenti che abbiamo in testa ;)
  7. .
    Lo studio di M. era soffocante, con i suoi mobili di legno scuro intarsiato, la moquette lisa per i passi di innumerevoli studenti, le alte finestre piombate che avevano sempre visto chiuse.
    Sabrina e Eva erano già state lì, quasi sempre per essere rimproverate e ammonite per lo scarso rendimento, e in alcune occasioni per essere punite.
    Soprattutto Eva, che era spesso nominata, negli eccitati bisbiglii delle compagne in fila per la mensa, o nei minuti in cui si incrociavano in bagno, come la “ribelle” della scuola. Lo dicevano a volte con rispetto, a volte con una specie di compatimento, ma Sabrina non poteva mai trattenersi dal pensare (con un imbarazzato brivido di eccitazione) a quante sculacciate aveva dovuto subire Eva per ottenere quella fama.
    E anche quel venerdì pomeriggio, prima della lezione di pallavolo, Eva era stata chiamata dal bidello, un vecchio bavoso che non si toglieva mai di mezzo dalla porta, per strusciarsi contro ogni ragazza che convocava dal preside… e Sabrina sapeva, come tutte le altre, che Eva sarebbe stata punita da M. per le sue due insufficienze in chimica e matematica.
    Più tardi, nelle docce dopo la pallavolo, Sabrina si era avvicinata come al solito per guardare di nascosto le strisce rosso cupo che coprivano il culo e le cosce della sua compagna (M. aveva usato una cintura, evidentemente, e ci era andato pesante come al solito). Ma stavolta Eva si era girata di colpo e aveva intercettato il suo sguardo… ma contro il timore di Sabrina non si era arrabbiata, anzi le aveva sorriso quasi timidamente.

    E il giorno dopo, in un angolo riparato del parco durante le ore di attività libera del sabato pomeriggio, Eva le aveva confidato di essersi accorta da parecchio di come Sabrina la guardava, e che non le sarebbe dispiaciuto provare come era baciarsi con una ragazza (di ragazzi ne aveva già conosciuti diversi, durante le sue fughe al bar del paese…).
    La mente di Sabrina si era svuotata di colpo a quelle parole, mentre le sembrava che la bocca si seccasse al punto di non poter più pronunciare un suono e lo stomaco si stringeva, e un attimo dopo le due ragazze erano abbracciate, e Sabrina sentiva le lingua di Eva solleticarle le labbra per fargliele aprire di più… E proprio in quel momento era piombata loro addosso Suor Cecilia, il peggior cane da guardia della scuola, gli occhietti stretti che le brillavano di gioia maligna: “Cosa fate, svergognate!” la voce già stridula della suora quasi non si sentiva tanto era acuta e agitata, “Staccatevi subito! Ora vi faccio vedere io...” e borbottando le aveva afferrate ciascuna per un braccio e trascinate dalla sorvegliante.

    Due giorni dopo erano state chiamate prima di cena dal bidello, sotto lo sguardo eccitato di tutte le altre che ovviamente sapevano ogni particolare della storia. Le aveva accompagnate (o meglio spinte, Sabrina sentiva la sua mano premerle sulla schiena, subito sopra le natiche, ma non osava scansarsi) fino allo studio di M.
    Erano entrate (per fortuna il bidello se ne era andato subito), trovando il professore in piedi in mezzo alla stanza, mentre si arrotolava lentamente le maniche della camicia e le guardava con uno sguardo gelido. Le sedie erano state allineate contro la parete per far posto a un tavolo di legno, su cui erano appoggiate tre lunghe bacchette di bambù e alcuni rotoli di corda.
    “Sapete benissimo perché siete qui,” esordì M. con la stessa voce bassa e lenta che usava a lezione, “oggi cercheremo di levarvi dalla testa tutte queste sciocchezze sul fatto di essere…”, qui fece una pausa, per riprendere con un tono se possibile ancora più sprezzante,”...tanto amiche”.

    Le due ragazze tacevano, gli occhi bassi, e Sabrina non si era nemmeno resa conto di aver preso per mano Eva… “Spogliatevi!” alzò la voce all’improvviso M.
    Sobbalzarono e, sotto gli occhi del professore che non distolse lo sguardo nemmeno un attimo, cominciarono a sfilarsi le scarpe, poi slacciarono le camicette e le gonne… ad ogni nuovo indumento si fermavano un attimo, ma M. non diceva niente e si limitava a guardarle, e loro continuavano a spogliarsi, finché rimasero nude, in piedi una accanto all’altra. Sabrina incrociò le mani davanti al ventre, mentre Eva, con visibile sforzo, tenne le braccia lungo i fianchi e lo sguardo alto verso M.

    Il professore si mosse verso di loro, afferrò Eva per un braccio e la trascinò verso uno dei lati corti del tavolo, spingendola verso il basso e dicendo a bassa voce “Chinati”. Poi fece lo stesso con Sabrina, portandola dall'altro lato del tavolo.
    Le ragazze chinate sul tavolo arrivavano ad avere i visi vicini, e Sabrina per un attimo non vide niente altro che i capelli arruffati dell’amica davanti agli occhi, finché Eva girò la testa: si trovarono a guardarsi negli occhi, molto vicine, e Sabrina sentì il calore del respiro dell’altra sul viso.
    M. ordinò a ciascuna di stringere con le mani il gomito dell’altra, e rapidamente girò due pezzi di corda spessa e ruvida attorno ai loro avambracci, che rimasero così saldamente legati l’uno all’altro.
    Poi passò altre due corde sotto al tavolo, stringendole a metà schiena delle ragazze, che furono costrette a stare piegate sul tavolo, le gambe tese che a stento toccavano terra (soprattutto Sabrina che era la più bassa), e il culo teso e esposto.

    “Adesso vi spiego come funziona questa… lezione...”, cominciò M. camminando lentamente attorno al tavolo, e appoggiando la mano sulla schiena delle ragazze mentre passava loro accanto, “Ognuna di voi riceverà più vergate di quante ne abbiate mai prese. Non c’è un limite al numero di colpi che vi darò, deciderò io quando il messaggio si sarà… impresso per bene” M. sorrise malignamente, fermandosi dietro a Sabrina, che sentì la sua mano appoggiarsi pesantemente sul culo, stringendole la natica… “L’unico modo in cui potrai interrompere i colpi”, continuò, assestando una sonora sculacciata alla ragazza, che sobbalzò ma rimase in silenzio,”sarà chiedendo che io cominci a picchiare lei. E lo stesso vale per te, signorina,” si rivolse a Eva,”Ti frusterò fino a che non chiederai che io ricominci a picchiare la tua amica. Questo”, concluse sorridendo apertamente,”farà chiarezza nel vostro… rapporto.”

    Sabrina sentì un nodo alla gola, mentre gli occhi le si inumidivano e il respiro si faceva affannoso: Eva le strinse più forte la mano sul gomito e sussurrò pianissimo “Non ti spaventare, piccola… è solo un grandissimo stronzo...”.
    M. prese una delle bacchette facendola fischiare in aria (Sabrina sentiva lo stomaco contrarsi ad ogni sibilo), girò per mezzo minuto attorno alle ragazze… finché si fermò dietro a Sabrina, che sentì il respiro bloccarsi completamente per la paura.
    “Bene, cominciamo allora” disse M. con la solita voce strascicata, e subito colpì con forza la ragazza. Sabrina si aspettava il colpo, ma il dolore era così intenso che la colse di sorpresa, e la costrinse a gridare forte. M. aspettò a lungo che il respiro le si calmasse, e poi colpì di nuovo e di nuovo Sabrina non poté fare a meno di gridare…
    Dopo altri due colpi, Sabrina aveva l’impressione che il suo culo fosse in fiamme e il dolore si stava diffondendo in tutto il corpo, senza però diminuire sulle natiche. Non si accorgeva nemmeno delle lacrime che le scendevano sulle guance, ma sentiva le mani di Eva che la stringevano e il suo viso premuto contro il suo, mentre le ripeteva “Piccola… piccola...”.
    “Basta, la prego, non ce la faccio più!” singhiozzò Sabrina… “No, signorina, ti ho spiegato come devi fare per avere un po’ di sollievo, non te lo ricordi?” rispose M. dolcemente, e poi alzò il braccio e la colpì ancora, facendola ricominciare a piangere forte. “Diglielo! dai, Sabry, diglielo, non mi importa...” la supplicava Eva… M. aspettò che si calmasse, godendosi la scena… Quando i singhiozzi si spensero, tornò a avvicinarsi a Sabrina e alzò di nuovo il braccio “No! no… per favore, no...” Sabrina abbassò la voce...”picchi lei...” Eva le strinse ancor più forte i gomiti, mentre M. sorridendo girava attorno al tavolo mettendosi dietro di lei: “La tua amica preferisce sentire i colpi sul tuo culo, a quanto pare” sogghignò, e frustò con forza la ragazza.
    Eva resistette a tre colpi senza fiatare, poi cominciò a gemere e dopo il sesto a gridare senza potersi trattenere, mentre le lacrime cominciavano a scenderle dagli occhi. Ora era Sabrina a stringerle le braccia, e appoggiare le labbra sul suo viso, anche lei in lacrime e ripetendo “mi dispiace… Eva, mi dispiace…”. Dopo dieci colpi M. fece una pausa, e Sabrina facendosi forza disse “Picchi me adesso, la faccia riposare per favore...”. “Decisamente non vuoi capire come funziona questa lezione… Non sei mai stata molto sveglia, d’altronde, come si vede dai tuoi voti nelle mie materie..”
    Detto questo, colpì nuovamente Eva, che sobbalzò e ricominciò a piangere. “Diglielo, per favore, ce la faccio...” sussurrò Sabrina alla amica, che aprì gli occhi e la guardò fissa, da vicino, trattenendo i singhiozzi fino al colpo successivo “Ahh! no… picchi lei...” a voce bassissima… “Non ho sentito, signorina” incalzò M. “Picchi lei” ripeté Eva tra le lacrime… mentre Sabrina la stringeva.

    Sabrina resistette a altri quattro colpi, prima di cominciare a gridare senza controllo, ma M. fu inflessibile, costringendola a chiedere un’altra volta di picchiare Eva. L’amica fu più resistente, ma dopo un tempo che a Sabrina sembrò lunghissimo dovette cedere anche lei. Le due ragazze piangevano entrambe senza ritegno, il culo di entrambe segnato di vistosissime strisce viola, la pelle escoriata in diversi punti…
    M. mise giù la bacchetta e si allontanò verso la scrivania, lasciandole lì legate… Dopo un minuto, quando il respiro le tornò più o meno normale, Sabrina sentì le labbra di Eva sul suo viso, ancora bagnato di lacrime, mentre la baciava leggermente… E girò un po’ la testa, per appoggiare le labbra a quelle dell’amica…
    Poi M. le slegò, e le due si rivestirono a fatica, sobbalzando ad ogni tocco, per quanto lieve, sulle natiche. Senza parlare, con gli occhi bassi, lasciarono lo studio e si avviarono verso la mensa. Solo dopo aver girato l’angolo del corridoio, Eva si avvicinò a Sabrina: “Te l’avevo detto… è solo un grandissimo stronzo!” e sorridendo le prese la mano.
  8. .
    CITAZIONE (Marc Siamese @ 15/7/2022, 12:27) 
    Benvenuto ProfBlack!

    Grazie Marc.
    E complimenti per i disegni, sono veramente evocativi :-)
  9. .
    Chiara si sedette davanti alla cattedra con il cuore in gola, cercando disperatamente di ricordare i dettagli della ricerca che aveva appena consegnato al professore. Mentre lui la sfogliava con aria annoiata, leggendo un paragrafo qua e là, Chiara si passò le mani sudate sulla gonna e si schiarì la voce.
    Poi S. chiuse la ricerca con un gesto secco, e disse a voce alta “Un lavoretto veloce, signorina, aveva troppo da fare?”, “No, io...” cominciò lei con la gola secca, ma S. la interruppe “Lasci stare, e mi dica piuttosto...” e cominciò a incalzarla con una serie di domande tecniche, sempre più astruse e irritate man mano che lei si confondeva nelle risposte.
    Chiara lo sapeva, lo sapeva che non avrebbe dovuto presentarsi a quell’esame, era stata stupida a farsi convincere da Luca: “Fa tutto facile, lui, gli basta leggere una volta e si ricorda tutto alla perfezione” pensò al volo, con un moto di rabbia mentre anche le ultime nozioni sembravano evaporarle dalla testa, ma comunque il professore aveva smesso di aspettare le risposte e sembrava provar gusto solo nel farle domande a voce sempre più alta, per farsi sentire bene dagli studenti affollati nell’aula, in attesa del loro turno. “Stronzo… quanto si diverte...” fece in tempo a pensare lei, prima che S. si interrompesse, e guardandola con rabbia e fastidio concludesse:
    “Evidentemente lei aveva voglia di farci perdere tempo oggi, signorina. Penso che le ci voglia una lezione per evitare che questo si ripeta” e aveva aperto un cassetto, estraendo un foglietto giallo con una serie di righe stampate. Chiara si sentì mancare il fiato: non aveva mai visto quel modulo, ma come tutti gli studenti sapeva benissimo a cosa servisse, se ne parlava a voce bassa e eccitata nell’aula studio, e si sapeva che S. era uno dei pochi a usarli davvero.
    Il professore si prese tutto il tempo di prendere la stilografica dal taschino, svitare il tappo e scrivere con calma il nome di Chiara sul foglietto, aggiungendo nella riga “Motivazione” alcune parole che lei non riuscì a leggere bene. In effetti Chiara aveva gli occhi appannati e la testa che girava, mentre pensava che avrebbe dovuto dire qualcosa ma non riusciva a aprire le labbra, concentrata nel respirare senza scoppiare in lacrime per l’imbarazzo.
    S. le porse il foglietto piegato e disse “Lei è fortunata, signorina, penso che domani l’ufficio sia aperto. La aspetto dopodomani nel mio studio con la nota firmata dal Responsabile della Commissione disciplinare. Se ne vada adesso, ho altri studenti che aspettano.”

    Chiara era uscita in fretta, evitando di incrociare lo sguardo degli altri che affollavano l’aula, soprattutto quello stronzo di Luca (“E stupida io a dargli retta!”) che comunque non fece neanche il gesto di seguirla visto che toccava a lui sedersi davanti a S. Uscendo dall’Università la ragazza inciampò nella porta, e per fortuna un ragazzo che la stava incrociando la sorresse. Senza neanche ringraziarlo se ne andò, e finalmente lasciò che le lacrime scendessero in silenzio. Lacrime di rabbia, e anche di paura, adesso che realizzava che domani sarebbe dovuta andare alla Commissione di disciplina: a nessuno di quelli che conosceva era mai successa una cosa simile, e Chiara conosceva solo vaghe e improbabili storie sulle punizioni che si subivano. Era così agitata che quasi cadde un’altra volta mentre scendeva dall’autobus; a cena per fortuna riuscì a mantenere un’espressione neutra, raccontando che l’esame era stato rimandato perché S. non era venuto. Le credettero, disinteressati come al solito. Aveva staccato il telefono, e andò a letto presto, anche se le sembrò di svegliarsi venti volte, senza riuscire a togliersi dalla testa il ricordo dell’umiliazione provata davanti al professore, e con lo stomaco che si stringeva ogni volta che pensava a quello che avrebbe dovuto fare l’indomani.

    La mattina seguente, senza dire niente ai suoi e uscendo alla stessa ora di tutti i giorni, Chiara scese in città e anziché andare a lezione si diresse verso il Rettorato, ricordando vagamente che la Commissione disciplinare aveva lì i suoi uffici. In realtà non sopportava nemmeno il pensiero di rivedere i suoi compagni, che ovviamente sapevano già tutti che era stata mandata alla Sezione di punizione, come era scritto su quel maledetto foglietto giallo…
    “Come faccio a andare a lezione, domani?” si domandava angosciata, benché questo pensiero fosse di per sé un sollievo rispetto all’aspettativa della punizione stessa.
    Una volta al Rettorato, fu costretta a chiedere in portineria indicazioni sulla Commissione: il custode, che sfoggiava un vistoso tatuaggio sul braccio e l’aria viscida di uno a cui Chiara non avrebbe mai rivolto la parola spontaneamente, la guardò con interesse e chiese cosa cercasse di preciso… E lei dovette dire, e ripetere perché la prima volta non era uscito più di un sussurro, che andava alla Sezione di punizione. L’interesse del custode divenne fin troppo evidente nel modo in cui la guardò dalla testa ai piedi (Chiara ebbe quasi l’impressione disgustosa che si stesse leccando le labbra), e l’uomo uscì dalla portineria, dicendo “Ti ci porto io, di qua...” e fece addirittura il gesto di prenderle il gomito, al che lei si scostò con forza.
    Quello sogghignò e le fece cenno di avviarsi in un corridoio, e la fece girare per diversi minuti, salendo due rampe di scale e percorrendo diversi corridoi, e camminandole sempre un passo dietro, evidentemente per godersi la vista di una ragazza che stava per essere punita (“Macché punita”, pensò lei “smetti di girarci attorno, sarai picchiata e quello schifoso se lo sta immaginando e l’idea lo eccita di sicuro, quel porco...”).
    Finalmente arrivarono a una porta a vetri con la scritta “Commissione di disciplina studentesca – Sezione punitiva”, e Chiara pensò di sprofondare quando scoprì che il corridoio era pieno di gente, compresi diversi ragazzi della sua età, evidentemente studenti che andavano in altri uffici e che la videro bussare e entrare…

    Nella stanza, piccola e afosa, c’erano solo uno schedario e una scrivania, a cui sedeva una donna di mezza età, vestita con un tailleur scuro, che sembrava una raccolta di tutto ciò che Chiara detestava, dai capelli troppo biondi e laccati, alle unghie lunghe e rosse di smalto, al trucco pesante.
    Per fortuna la donna respinse subito (“Tu puoi andare, adesso!”) il portiere che cercava di intrufolarsi con la ragazza, poi si rivolse a lei chiedendole seccamente cosa volesse. Chiara le porse il foglietto, e la donna lo prese con un sorrisetto, lo lesse con calma, poi chiese “Mi serve un documento”. Trascrisse lentamente i dati della carta di identità su un altro modulo, mentre Chiara spostava il peso da un piede all’altro, la gola secca e il viso che bruciava tanto era rosso. Alla fine la donna girò il modulo e ordinò “Firma qua!”: era una dichiarazione in cui il/la colpevole (così diceva) dichiarava di essere consapevole ecc. ecc. e di accettare la punizione che sarebbe stata impartita ecc… Chiara non riuscì a leggere tutto, e si limitò a firmare rassegnata.
    “Bene” disse la donna, “il Responsabile non è ancora arrivato. Vai fuori e aspetta finché non ti chiamo”.
    Chiara uscì, riuscendo chissà come a non urtare la porta, visto che aveva gli occhi appannati e respirava a fatica per l’agitazione, e andò a sedersi su una panca lungo il corridoio. Non si rese conto di quanto aspettò, ma doveva essere più di mezz’ora: tenne gli occhi costantemente a terra, consapevole che tutti quelli che passavano le lanciavano occhiate curiose (e molti di loro, sicuramente, eccitate).

    Alla fine sentì la porta a vetri aprirsi tintinnando, qualcuno entrò (lei non lo aveva visto passare, concentrata a guardare la mattonelle del pavimento) e la richiuse. Dopo alcuni minuti, la porta si aprì nuovamente e la donna disse a alta voce “Vieni dentro, adesso, tocca a te”.
    Chiara si ritrovò nuovamente nella stanzetta con la donna, che stavolta aprì una seconda porta dietro la scrivania, ordinandole “Dentro, dai, non farci perdere tempo”. La ragazza entrò nell’altra stanza, seguita dalla donna (Chiara ebbe il tempo di provare un’ulteriore fitta allo stomaco al pensiero che “quella” sarebbe forse stata presente quando…).
    La nuova stanza era molto più ampia, illuminata da due grandi finestre senza tende (“Meno male che siamo al terzo piano...” Chiara si sorprese di riuscire a pensare a simili sciocchezze in quel momento). Lungo il muro opposto alle finestre c’era una specie di panca da palestra, con un rivestimento di gomma nera, inclinata di 45 gradi, e in mezzo alla stanza una scrivania. In piedi, comodamente appoggiato alla scrivania, un uomo robusto con i capelli neri, in jeans e camicia scura la guardò entrare, prese dalla scrivania il maledetto foglietto di S. e chiese “Tu sei Chiara … ?”. Lei annuì, cercando di deglutire e passando senza accorgersene i palmi delle mani sulla gonna. L’uomo ebbe un sorrisetto notando quel comportamento, e aggiunse “Ok! Sai benissimo perché sei qui: fai quello che ti dico, e cerca di comportarti bene se non vuoi peggiorare -e molto- la situazione, mi hai capito bene?” “Sì”, riuscì a dire Chiara… e dopo alcuni secondi in cui lui si limitò a guardarla fissa, senza più nessun accenno di sorriso, aggiunse a bassa voce “… signore”.
    “Spogliati” ordinò lui, girando attorno alla scrivania per andare a sedersi, “resta solo con la biancheria. Forza! metti le tue cose in quella cesta” e le indicò un grosso contenitore di plastica accanto alla donna che era rimasta in piedi a guardarla.
    Chiara si avvicinò, e cominciò con le dita tremanti a slacciare la gonna e sfilarsi le scarpe. Ci mise un sacco di tempo a togliersi i vestiti, le mani sembravano rifiutarsi di obbedire, ma i due non le fecero fretta, si limitarono a guardarla in silenzio, finché rimase solo con mutandine e reggiseno.
    Allora si voltò verso l’uomo, incrociando le braccia davanti al seno: sempre seduto alla scrivania, lui le disse “Vai a leggere a alta voce cosa c’è scritto su quel foglio” indicandole un avviso incorniciato sulla parete. Chiara si avvicinò, sentendo il pavimento di linoleum consumato freddo sotto i piedi nudi, e lesse cercando di mantenere la voce ferma: “Ai sensi dell’art. 21 del Regolamento di disciplina, le punizioni possono essere aumentate a discrezione del Responsabile del procedimento in caso di insubordinazione del colpevole”.
    “Hai capito bene cosa vuol dire?” domandò lui.
    “Sì, signore” rispose Chiara, “io non voglio comportarmi male, davvero...”

    L’uomo scambiò un sorriso con la donna in piedi alle spalle di Chiara, poi si alzò dalla sedia e cominciò a arrotolare le maniche della camicia. “Vai lì” ordinò, indicando la panca inclinata.
    Quando la ragazza si fermò accanto alla panca, lui le appoggiò una mano alla schiena e la spinse a appoggiarsi al rivestimento di gomma, poi le alzò un polso dopo l’altro, bloccandoli con larghe strisce di stoffa attaccate alla panca. Un’altra striscia passò sui polpacci di Chiara, bloccandoli contro la panca.
    A quel punto l’uomo si rialzò, e con un gesto deciso le afferrò le mutandine abbassandole fin sotto le ginocchia. Chiara chiuse gli occhi, e non riuscì a trattenere un gemito di paura, che provocò una risatina nella donna che stava guardando e si avvicinò con i tacchi che risuonavano sul pavimento.
    “Quante gliene dai?” domandò con voce leziosa; “E’ la prima volta che viene qui” rispose l’uomo, “e faremo in modo che non ci torni più, vero Chiara?” concluse dandole un forte colpo con la mano aperta, al centro di una natica, e strappandole un grido più di sorpresa che di dolore. “Te ne darò abbastanza perché te ne ricordi, va bene?”
    Poi si allontanò, Chiara lo vedeva con la coda dell’occhio, mentre teneva la testa schiacciata sulla panca con i capelli che le coprivano in parte la visuale, aprì un cassetto della scrivania, e tornò verso di lei impugnando quella che sembrava una lunga e spessa paletta di legno.
    L’uomo si piazzò al suo fianco, scambiò uno sguardo di intesa con la donna, poi alzò la paletta e lasciò cadere il primo colpo.
    Chiara sentì il rumore, sorprendentemente forte, un attimo prima che un bruciore insopportabile si diffondesse sul suo culo, e prima che potesse riprendere fiato un secondo colpo altrettanto forte si abbatté su entrambe le natiche.
    Stavolta Chiara gridò, ma i due non se ne preoccuparono: cominciò una lunga serie di colpi, più distanziati e non sempre così forti, ma comunque terribilmente dolorosi, a volte su una natica, a volte su tutto il culo, e in alcuni casi anche sulle cosce della ragazza.
    Chiara cominciò a gridare senza rendersene conto, dopo il quinto o sesto colpo, agitandosi senza volerlo per liberare i polsi o le gambe ma senza successo.
    Dopo un tempo che le parve infinito, la serie di colpi si interruppe, e le grida si trasformarono lentamente in singhiozzi, mentre il dolore si diffondeva diventando meno acuto e più profondo…
    Quando anche i singhiozzi si furono calmati, l’uomo -che aveva appoggiato la paletta sulla scrivania- tornò verso di lei impugnando una lunga cintura di cuoio.
    “No, per favore, per favore...” ansimò Chiara “non mi picchi più, basta...”
    Lui le appoggiò una mano sulla testa, ma senza spingere, come per rassicurarla, dicendo:
    “Il tuo professore ha chiesto esplicitamente che sia una punizione indimenticabile… Ed è proprio adesso che le botte diventano utili, sai… quando non ne puoi più. Adesso ti ricorderai davvero di ogni colpo che ti darò, fidati”
    E si allontanò di un passo, mentre lei tratteneva il fiato. Ma anziché colpirla, l’uomo si rivolse alla segretaria lì accanto: “Vieni a vedere… per quanto tempo pensi che le resteranno i segni?” e i due si misero a discutere, toccando i punti più segnati e brucianti del suo culo, come se fosse un’esercitazione, o più probabilmente un gioco consueto tra di loro… Alla fine la donna concluse “Si vede che fa molta palestra, vedi come è bella?” con un tono insopportabilmente ammiccante, “non ti preoccupare, gliene puoi dare finché vuoi...”
    Allora l’uomo alzò il braccio e cominciò a frustarla con forza, ripetendo dopo ogni colpo “Ricordati di questo, signorina...” oppure “Pensaci bene, Chiara...” e via dicendo, finché i due cominciarono a sghignazzare senza ritegno. Chiara non poteva impedirsi di piangere sotto i colpi, ma stringeva le labbra per non farsi sfuggire i gemiti che sicuramente li avrebbero eccitati anche di più.

    Dopo un tempo che Chiara non avrebbe saputo misurare, ormai il dolore era diventato continuo e quasi non sentiva più i singoli colpi, l’uomo si fermò, stanco. Finalmente la sciolsero dalla panca e la donna la aiutò a rimettersi in piedi. A fatica Chiara si rimise a posto le mutandine, con un gemito quando la stoffa strisciò sulla pelle bollente, e poi zoppicò fino alla cesta, per rivestirsi. I due restarono a guardarla per tutto il tempo, con il solito sorriso ammiccante, ma ormai lei non badava più a niente, voleva solo andar via… Quando fu vestita, domandò a capo chino “Posso andare, adesso?” “Aspetta un attimo” intimò l’uomo, facendole saltare il cuore in gola al timore che volesse ricominciare, “devi portare questo al tuo professore”, e si sedette a scrivere qualcosa sul foglietto, porgendolo poi alla ragazza.
    “Adesso vattene, e cerca di non farti più mandare da noi, perché la prossima volta non sarò così gentile con te”, e con una risata la segretaria aprì la porta e la fece uscire.

    Ogni passo era una tortura per Chiara, che aveva l’impressione che il suo culo fosse raddoppiato di volume e a ogni passo le strappava un gemito, tanto era bollente. Si fermò nel primo bagno libero, al piano di sotto, per cercare di guardare come era ridotto, ma non ebbe il coraggio di spogliarsi davanti allo specchio. Si limitò a bagnarsi la faccia, per cercare di nascondere un po’ i segni delle lacrime, e poi lentamente scese le scale e si avviò per strada. Aveva lunghe ore da passare: il pensiero di andare alle ultime lezioni la fece rabbrividire di imbarazzo, e era sicura che non sarebbe riuscita a sedersi in biblioteca, quindi si rassegnò a camminare per tutto il tempo, prima di tornare a casa alla solita ora. Di sicuro, avrebbe fatto di tutto per non far capire ai suoi cosa le era successo, al limite -pensò- avrebbe raccontato di avere la febbre per mettersi subito a letto, e cominciare finalmente a dimenticarsi quella terribile giornata.
  10. .
    Grazie Zonker!

    E lasciami dire che apprezzo particolarmente il riferimento del tuo nickname (se è quello che penso ;-)) anche se denuncia l'età che entrambi abbiamo! :-)
    (A saperlo, quasi quasi mi sarei chiamato Duke ;-))

    Le monelle bisognose di correzione non mancano mai ahah Tutto sta a convincerle che è per il loro bene...

    Pubblicherò volentieri alcuni racconti, questo è il posto giusto, direi... :-)
  11. .
    Un saluto a tutte e tutti gli iscritti al forum…

    Sono arrivato da poco qui, e finora ho soprattutto letto le discussioni e i racconti; ora mi piacerebbe contribuire anche io. Con alcuni ci saremo già incrociati in altri posti simili a questo (il mondo spankofilo non è minuscolo, ma neanche sterminato :-) Un paesone, diciamo!), ma è giusto comunque presentarsi...

    Sono un appassionato di spanking (M/f) praticamente da sempre (già da bambino era una delle mie fantasie più stuzzicanti :-)), mi piace molto giocare con le sculacciate e pratiche affini con amiche, compagne di gioco, esploratrici come me :-)

    Amo soprattutto lo spanking disciplinare (senza prendersi troppo sul serio, eh…) ma c’è un qualcosa in più nello sculacciare una ragazza perché se lo merita, non trovate? E poi, nella vita “civile” sono un docente e sarà anche per questo che mi piace fare il tutore e l’insegnate severo :-)

    Ovviamente mi piacciono anche molte altre cose (tra cui leggere, camminare in montagna, discutere argomenti da nerd... :-)), ma ne possiamo parlare con chi è interessato.
11 replies since 8/7/2022
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