Agli inizi
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Storia rigorosamente di fantasia, ma... sai come funziona un collage? Prendi un pezzetto di realtà, gliene metti accanto un altro, poi un altro ancora e alla fine ottieni un disegno. Così, prima di cominciare, meglio chiarire che ogni riferimento a fatto accaduti e persone esistenti (o esistite) deve essere considerato puramente casuale.
Detto questo... si comincia.
Lei sta aspettando, i capelli raccolti in una treccia ordinata sono una stretta V lungo la pelle della sua schiena, come un segnale che qual è il mio compito.
È distesa sul letto sul letto in posizione prona.
Nuda.
Un paio di cuscini sotto la pancia le tengono il fondoschiena ben esposto. Due paia di manette serrano i polsi alla testata del letto, puro ferro battuto, di quelle che si facevano una volta. Una benda sugli occhi e la pallina di gomma sulla bocca, legata con una robusta fibbia dietro la nuca, completa il quadro. Anche i piedi sono legati alla pediera del letto, una corda di accappatoio ciascuno li serra in posizione leggermente divaricata. Ha eseguito le mie istruzioni a puntino. A me ha lasciato il lavoro pesante… ma è meglio che proceda dall’inizio. Mi chiamo Alberto e di professione sono un agente immobiliare. Tutta questa storia è iniziata un paio di giorni fa durante un sopralluogo. Una signora ha messo in vendita la sua villa, ormai troppo grande per lei che è rimasta sola… e ha chiamato me.
Una villa d’epoca poco appariscente, appartata, con un’alta siepe di cipressi grigi a nasconderla da occhi indiscreti e un giardino in stile giapponese con pietre, acqua e bonsai ben curati. La signora, Anna, ha i suoi anni ben documentati da una fitta ragnatela di rughe che le attraversa la faccia in ogni direzione e che amplifica qualsiasi emozione voglia trasmettere. I suoi occhi mi ricordano quelli di un rapace, come se il suo spirito fosse pronto a spiccare definitivamente il volo. Le stringo la mano, oh! Che energia! Per non perdere l’equilibrio entro, ma la sensazione è strana davvero. Sembra quasi che mi abbia trascinato lei. L’interno è di un’altra epoca, mi ha fatto venire in mente quelle ville in stile viennese, ecco, manca solo un valzer di Strauss in sottofondo; mobili, lampadari di cristallo, i tappeti, souvenir del giappone ovunque, al posto delle porcellane cinesi, ma l’aria che si respira pare vecchia di un secolo. Sul buffet del soggiorno fanno bella mostra di sé una serie di fotografie: il marito, che intuisco essere morto, le figlie una sposata e una decisamente single. Non è difficile da capire: quella sposata è in abito da sposa, eh eh, per sbagliare devo impegnarmi. La foto è fresca di stampa segno che il fatto è avvenuto negli ultimi due-tre mesi. L’altra figlia è più grande e non sembra sposata o forse non lo è più. È da qualche parte al mare, qualche isola tropicale, indossa un bikini minimale ed è circondata da uomini che sembrano fuoriusciti da una puntata di baywatch. Involontariamente mi passo una mano sull’addome: dovrei tornare in palestra. Nell’immagine ha un corpo tonico, vibrante, sensuale come una delle creature immortalate nel marmo da Antonio Canova. Distolgo lo sguardo, controvoglia, prima che venga notato da Anna. Mentre giriamo per le stanze, ormai disabitate tranne la cucina e la camera da letto, mi soffermo sulla stanza delle “ragazze” e l’atmosfera che percepisco è molto differente. Nonostante siamo arrivati alla mansarda sento freddo. Ci sono un paio di lucernari, ma devo comunque accendere la luce per vedere meglio. Un armadio laccato di bianco e due letti con la testiera in ferro battuto completano l’arredo. Uno dei due letti è pronto. L’altro ha solo il materasso. «È per mia figlia maggiore: ogni tanto passa a trovarmi.» la voce della padrona di casa mi fa sobbalzare, mi sento come un ladro sorpreso a sbirciare di nascosto. Distolgo frettolosamente lo sguardo, anche se quelle sbarre di ferro mi hanno fatto venire in mente una fantasia che include a meraviglia lo splendido lato B messo in mostra dalla figlia maggiore nella foto del soggiorno. C’è una porta sul fondo della stanza, apro, c’è un bagno cieco. Lo sfarzo e l’abbondanza di dettagli che abbondava nel resto della villa qui pare un ricordo più remoto dell’allegria in un cimitero. Il bianco è ovunque, i sanitari sembrano mimetizzarsi nel bianco delle piastrelle reso opaco da una lampadina che produce a stento la luce l’illuminazione necessaria. Un asciugamano rosa, unica nota di colore, è appeso a un gancio tra la vasca e il lavandino, sul gancio accanto due corde da accappatoio e una grossa spazzola da bagno son tutto quello che c’è ancora da vedere. Nel mio animo si fa strada una sensazione che conosco bene: claustrofobica e oppressiva; mi prende allo stomaco e non mi lascia andare. «Questa è l’ultima stanza o possiamo passare al giardino?» chiedo. Mentre scendiamo Anna mi racconta dei grattacapi procurati dalle figlie finché non si sono sistemate tutte e due quando hanno trovato lavoro e sono andate a vivere da sole. Con suo marito accanto era stato tutto più semplice, ma durante la “fase dei cretini”, come aveva chiamato lei la pubertà e complice la malattia del marito, aveva avuto molte difficoltà per riuscire a tenere sotto controllo ogni questione. Anna accompagna ogni frase muovendo le mani: movimenti secchi, decisi, autoritari. Provo ad immaginarla con una quindicina di anni di meno, facciamo venti. Piccola, ma agguerrita. Ecco sì, la vedo proprio così: molte meno rughe, la pelle delle braccia ancora tonica. Mi scappa un «Bei muscoli che ha, signora, anche adesso! Che esercizi fa per essere così in forma?» Lei sorride, ma continua a descrivermi la casa e la sua vita. Non dubito neanche per un istante di quanto mi racconta. Il cipiglio con cui si rivolge a me, tutto il suo non verbale, metterebbe in riga anche un plotone di tredicenni in piena tempesta ormonale. Concludiamo il giro nel seminterrato dove c’è una cantina ripostiglio, uno studio ricavato dal garage e la lavanderia. In quest’ultima stanza il senso di angosciosa oppressione si fa palpabile: la stanza è immersa nel silenzio e non passa un filo d’aria neanche per sbaglio. Una lavatrice e un essiccatoio attendono, in un angolo, di essere utilizzati. Non ci sono finestre, solo una “bocca-di-lupo” da cui la luce entra di sbieco. Linoleum come pavimento, che un tempo doveva essere stato bianco, pannelli bianchi alle pareti e al soffitto che isolano dai rumori così da impedire agli elettrodomestici di disturbare gli ospiti durante il the. Il colore della stanza mi fa saltare in mente un’idea affatto sorprendente, per me. Osservo meglio tutto l’ambiente. Una panca sotto la finestra, una sedia accanto la lavatrice, un armadio a fianco della porta e tutto dello stesso bianco ingrigito. Una serie di fili da bucato attraversa un lato della stanza, sono vuoti e corredati da robuste pinze da bucato di legno, come si facevano una volta. Con un dito ne spingo un paio lungo il filo. Ah, però! Sono anche grosse: chissà quanti anni hanno? Non se ne trovano più così. La lavanderia mi colpisce come e più della “camera delle ragazze”. Nel corso degli anni ho imparato a distillare, da tanti piccoli indizi, la personalità di chi abita nella casa che sto valutando. È un riflesso condizionato, non posso farci nulla: osservo, analizzo, deduco e di solito la conclusione si rivela esatta. È la mia deduzione che mi porta ad aprire distrattamente un’anta dell’armadio: quella in basso a sinistra. La signora non è mancina e non è alta. Dentro ci sono scatole varie, detersivi, ammorbidente, una corda di canapa e altre mollette per bucato come quelle appese al filo. Annuisco e sorrido. Infissa nell’anta c’è quello che mi aspettavo di trovare: una fila di chiodi piantati a distanza regolare, di quelli con la punta ricurva fatti per agganciare qualcosa… e a quell’anta sono stati agganciati degli oggetti precisi, che nel corso degli anni hanno lasciato un’orma inconfondibile sul bianco del mobile. Uno di essi è ancora lì: un battipanni di vimini col manico tagliato e rinforzato con nastro da tennis per tener salda l’impugnatura. Sia mai che scivoli mentre è in servizio!
Chiudo l’armadio: «ho visto abbastanza», dico, e facciamo ritorno nel soggiorno al piano terra. Chiedo informazioni sui membri della sua famiglia cioè sulle figlie: come stanno, se c’è qualche nipotino in arrivo e se passano a trovarla ogni tanto, quando posso organizzare le visite per la vendita così da non recare disturbo… tutto il solito giro di domande. Lo confesso: alcune non fanno parte della prassi, ma sono comunque di mio interesse e recito la lista di domande col tono più professionale che mi riesce. Ottengo tutte le risposte che mi occorrono e mi congedo. La figlia maggiore, quella della foto in costume da bagno, si chiama Marzia. Il cognome lo conosco già. Non è sposata e passa spesso a trovare la madre quando si trova in città: il suo lavoro la porta in giro per il mondo.
Mentre organizzo le prime visite alla villa, comincio a scandagliare i social network alla ricerca di un profilo compatibile con nome, cognome e foto. La rintraccio in meno di dieci minuti: certe persone amano apparire e Marzia si dimostra all’altezza delle aspettative. Ventinove anni, porta i capelli lunghi raccolti in una treccia, gli piace cambiargli spesso colore… chissà qual è quello naturale. Non vedo l’ora di scoprirlo. Ha amici in prevalenza uomini, la maggior parte risiede all’estero: amicizie lontane, di vicino ha la sorella. Discreto bocconcino anche lei, purtroppo è sposata ed io, per questioni etiche e filosofiche, non approccio mai donne appaiate, non per primo. Nel suo profilo è scritto tutto quel che mi occorre sapere, neanche ho bisogno di chiederle l’amicizia per raccogliere più informazioni: le foto che ha pubblicato parlano da sole. In alcune di esse fa splendere il suo lato B su una spiaggia incastonata tra scogliere altissime, tutte le foto sono geo-taggate e così riesco a ricostruire dove è stata e chi ha visto negli ultimi sei mesi. Anche se conosco molte persone stupide, questa non lo è: capisco che tutta questa abbondanza di informazioni non è messa lì per caso. Ogni indizio concorre a formare un unico quadro possibile. Eppure sembra che nessuno dei suoi amici lo ha capito? Comincio a spulciare i profili di amici e amiche, almeno là dove posso guardare senza dover chiedere l’amicizia. Alcuni di loro l’hanno incontrata. Probabilmente da loro ha ottenuto ciò che desiderava; una piccola indagine sui profili di alcuni di questi gentiluomini conferma la mia ipotesi. Un paio sono anche miei contatti, persone discrete, ma legate a me dalla stessa passione.
Senza indugio le invio una richiesta di amicizia.
Tuttavia sento che sto tralasciando qualcosa.
Nei giorni successivi sono molto occupato col lavoro: ho in agenda sedici appuntamenti da gestire nell’arco di due giorni, tre di essi riguardano la villa di Anna. L’ho valutata 1.500.000€ e i potenziali acquirenti cominciano a farsi vivi. Del resto è una villa di pregio, ben manutenuta e non lontana dalla città.
Al secondo appuntamento ad accogliermi assieme ad Anna c’è Marzia, oh che sorpresa! Insieme a me c’è una coppia di signori sulla quarantina che ho portato a vedere altre ville simili, in zona. La fisso diritta negli occhi. Sono neri, come la treccia che le ricade su una spalla, ma la somiglianza con la madre finisce lì. Marzia è molto più alta, il vestito che indossa pare la negazione stessa del suo profilo social. Golfino di lana lilla, a collo alto, pantaloni in flanella ampi a vita alta, senza cintura. Il viso è ovale, labbra carnose e perennemente imbronciate, naso alla francese. Tutta suo padre, anche nel taglio degli occhi che appaiono grandi e spauriti come quelli di una cerbiatta. Per un istante i nostri sguardi si incrociano, lei si copre il seno con un braccio e il ventre con l’altra mano, come se non avesse nulla addosso, poi si ritira nella sua stanza su invito della madre. Invito… è stato proprio un ordine, di quelli che se ti azzardi a disattendere ti ritroverai a vedere i proverbiali sorci verdi, magari sulla panca in lavanderia, a pancia in giù. Completo il giro della casa insieme ai miei clienti e poi mi congedo. Marzia è ricomparsa accanto alla madre, ora sorride e mi saluta di rimando. Un campanello sul mio smartphone mi conferma che è arrivata una notifica su facebook. E adesso ho capito cos’è che mancava. Congedarmi dai clienti non è mai stato tanto appagante come in questo momento. Balzo in macchina eccitato come un sedicenne che sta per aprire il paginone centrale di Playboy e impugno il telefonino mentre le dita cercano freneticamente l’elenco delle notifiche. Ha accettato la mia richiesta di amicizia e ora posso vedere tutto il suo profilo. È cambiato, ora si vedono molte più foto e decisamente differenti, ma ormai ne ero certo. C’è persino il suo numero di cellulare. Lo aggiungo subito alla rubrica. È presente su Telegram e Whatsapp, probabilmente ora sa che l’ho aggiunta. Devo essere veloce. Le invio un messaggio: “sei stata molto cattiva”, scrivo. “Tua madre non sa quello che fai, vero?” Lei risponde con due faccine, una che ride a denti stretti e l’altra piangente: “ti prego, non dirglielo! Non sai di cosa è capace!” “So bene di cosa è capace”, rispondo. “Te lo ha detto lei?!?” La sua risposta contiene ben quattro faccine sbalordite. “Tua madre è una signora perbene, ama mostrare una facciata distinta e inappuntabile anche meglio di te, ma quando ho visto la lavanderia è stato come se avesse messo un cartellone 10 metri per 6 con la spiegazione per ipovedenti.” Questa consapevolezza rovina un po’ il gioco, ma solo un poco. “La vecchia non voleva che fossi presente mentre passavano i potenziali compratori per la casa, pretendeva che aspettassi chiusa in camera mia come quando avevo sedici anni! Ma io sapevo che saresti passato e quando ho ricevuto la tua richiesta di amicizia volevo darti una buona occhiata, prima di accettare. Non do il mio numero di cellulare al primo che incontro.” “Magari tua madre non la pensa così, ma non le dirò nulla di cosa fai adesso coi tuoi -amici-, ma sai di meritare un bel castigo, vero?” Scrivo velocemente, vedo che sta scrivendo, poi smette. Ricomincia a scrivere. Si ferma di nuovo. “Rispondi!” Scrivo, senza aggiungere faccine. So che non sto esagerando. La ragazza è esigente e vuole solo avere una conferma. “Si. Lo merito.” Faccina triste. Centro! Si comincia, penso, mentre consulto l’agenda per i prossimi giorni. Venerdì ho la mattina libera. Anche domenica pomeriggio non ho impegni. Riprendo a scrivere. “Per prima cosa fila in camera tua, se non ci sei già, ti fai un belfie integrale e me lo invii. Per la seconda foto dovrai scendere in lavanderia.” Dopo poco mi arriva la foto di lei riflessa nello specchio della camera, col golfino sollevato sulla pancia e i calzoni di flanella abbassati quel tanto che basta a lasciarmi ammirare due natiche come quelle della foto, solo meno abbronzate e incorniciate da uno slip in pizzo nero.
“Va bene così?” Mi scrive subito dopo l’invio. Decido che mi va bene, ci sarà tempo per ammirarlo meglio. “Ovviamente no” le rispondo “Sei stata molto maleducata a negarmi la visione completa, ti dovrò impartire parecchie lezioni al riguardo.” non le lascio il tempo di rispondere “Venerdì mattina ore nove, hotel ‘La rosa nera’, tra poco ti passerò anche l’indirizzo. Troverai una camera prenotata a nome “Rossi”. Ci troverai tutto il necessario e le istruzioni per utilizzarlo. Ogni secondo di ritardo renderà più severo il tuo castigo. Ti è chiaro?”
“Mi è chiaro, risponde. Attendo l’indirizzo, a venerdì.” “No”, continuo a scrivere, “e questo ti costerà caro. Rileggi quello che ti ho ordinato e obbedisci, non hai molto tempo: tra poco dovrai scendere in lavanderia.” “Come fai a sapere che andrò là?” “Tua madre ha lasciato il battipanni appeso nell’armadio, e tu le hai disobbedito per vedermi di persona prima di confermarmi l’amicizia. Non è una donna di cui possa contravvenire agli ordini senza conseguenze. Se non ti chiamerà tra poco per darti una ripassata sarai tu a chiederglielo e mi manderai una foto del risultato. Se non sarò soddisfatto dovrò provvedere io; venerdì mattina ore nove in punto. Ora ti mando l’indirizzo.” le scrivo. “Ma ho 32 anni, non posso chiedere a mia madre di usare il battipanni!” “Trova un modo, ma voglio proprio vedere quel tuo meraviglioso culetto grigliato a dovere da una mano esperta.” Lei risponde solo con tre faccine piangenti. Mentre aspetto scrivo l’indirizzo dell’hotel e poi preparo le istruzioni che troverà nella stanza: “Andrai in bagno, ti farai una doccia e lascerai i vestiti lì. Il termostato della stanza è impostato su 22°C, lascialo com’è. Sul letto troverai quattro cuscini: prendili. Sotto ci saranno due paia di manette, due corde per accappatoio, una benda, una ball-gag, un foglio e una penna. Per prima cosa legherai le caviglie con le corde degli accappatoi alla pediera e farai in modo che le tue gambe siano larghe il giusto: né chiuse, né completamente divaricate. Coi cuscini farai una pila davanti a te. Indossa le manette ai polsi, un paio per polso e lascia l’altro bracciale aperto." Mi faccio l'appunto mentale di rimediare due corde da accappatoio come quelle che ho visto in bagno a casa di sua madre. "Metti la benda sulla fronte e poi se sceglierai di mettere la pallina in bocca serra bene la fibbia! Scrivi sul foglio la safe-word, dalle foto “segrete” del tuo profilo sono certo che sai benissimo cos’è. Appoggia il foglio sul comodino e poi stenditi sulla pila di cuscini così da lasciare il tuo bel culo esposto a dovere. La chiave delle manette è appesa alla testiera, al centro (ma a questo punto l'avrai già notata). Se cambi idea potrai farlo finché non avrai chiuso anche il secondo paio di manette. Quando le avrai serrate alle sbarre della testiera potrai solo attendere che giunga il tuo castigo. Se vorrai usare una safe-word scrivila prima di legarti sul foglio, ma se intendi indossare la ball-gag vorrà dire che non ne avrai bisogno per un bel po’.” Mentre scrivo sento l’uccello diventarmi di marmo. Inspiro più volte per impormi la calma. Sono stato misurato, sono stato pesato e potrei ancora essere giudicato mancante da questa signorina che, a quanto ho visto, si accontenta solo del meglio. “Quanto dovrai aspettare lo deciderò io, ma fai in modo di poter restare legata anche un’ora o due.” invio il messaggio e poi mi maledico pensando a quanto è ancora lontano venerdì. Avvio il motore e riparto, ho ancora altri appuntamenti: oggi finirò tardi. Mi arriva la sua risposta dopo un’ora, a cavallo tra due clienti: è un video, lo apro e vedo una finestra tonda da cui si vedono un armadio bianco e una panca sotto una finestra a bocca di lupo. Lì per lì non capisco e poi la rivelazione: è la lavanderia! Vedo entrare Anna seguita da Marzia. L’anziana donna indica alla figlia la panca e poi apre l’armadio da cui prende la corda e il battipanni. A bocca spalancata ammiro tutto il rituale, lei che si spoglia, la madre che la lega alla panca con la corda, e poi godo per lo spettacolo che capisco essere stato organizzato solo per i miei occhi… va be’, visto l’esibizionismo di cui Marzia fa sfoggio sul suo profilo credo che presto ci saranno molti altri ad ammirarla, ma l’onore di essere il primo oggi tocca a me. E poi impazzisco al pensiero di quello che potrebbe accadere venerdì.
Ed eccoci al punto di inizio di questa storia. Lei è distesa, prona su una pila di cuscini col culo esposto al massimo. A causa della penombra non riesco a vedere in mezzo alle gambe, ma accendo la luce e scopro che è veramente mora, il nero dei capelli è il suo. Il sedicenne che è in me mi direbbe, anzi urlerebbe proprio, di saltarle addosso e magari venire con tutti i pantaloni ma, adesso, a quarant’anni suonati ho imparato gustare anche l’attesa. Il semplice poggiare le scarpe sulla moquette della stanza, l’avvicinarmi un passo dopo l’altro al letto, posare la borsa ed estrarre il battipanni sono azioni che mi offrono un piacere intenso. Per precauzione ho indosso la maschera di cuoio.
Mi soffermo sugli altri strumenti: oltre al piccolo arsenale di tawse, canne e palette varie in rappresentanza della rastrelliera che ho nel seminterrato di casa ho anche delle pinze da bucato nuove di zecca (rigorosamente in legno), alcuni anal-plug in acciaio di sezioni crescenti e dildo altrettanto vari tra cui quello “a buccia di cetriolo” come lo chiamo io. Ho anche una striscia di cuoio grezzo: sono certo che non ne ha mai assaggiata una così, così come il gancio d’acciaio che legherò alla sua treccia con le stringhe di cuoio. Un premio da proporre solo se accetterà di essere la mia schiava per un po’. Le accarezzo il culo con il battipanni, lei caccia un sospiro e si agita, come se volesse essere liberata. Ma quel birbante del suo lato B, che pare essere uscito dalle mani del Canova, ci si struscia contro; brama quel contatto e mi sembra proprio che non veda l’ora di ricevere qualcosa più intenso. A maggior ragione voglio farla aspettare ancora un poco: più si eccita e meglio sarà per entrambi. Il foglio con la safeword è sul comodino. Leggo “rigore”, sorrido e metto da parte. «Sei stata davvero cattiva a giocare alla tua povera, vecchia, madre quello scherzo… o era d’accordo a essere ripresa?» Lei mugola e io, con un movimento della mano libera dettato dall’esperienza, allento la ball-gag quel tanto che basta per farla parlare. «Era d’accord—» lascio andare la pallina che torna a bloccarle la bocca. «Hai perso la tua prima occasione per essere sincera. Riceverai dieci colpi aggiuntivi col battipanni, ma a piena forza». Lei mugola e si agita, ma le manette con cui s’è legata al letto non cedono di un amen. Le sbarre del letto sono tutte scrostate, proprio a causa di tutti quelli che prima di noi hanno usato quel luogo per lo stesso scopo. Sorrido. Non mi capita spesso di dire "noi". «Vuoi sapere come faccio ad averti scoperta così facilmente? Durante il video tua madre non ha mai guardato, neanche una volta, verso la lavatrice. Tu invece eri sempre con lo sguardo verso l’oblò. Tu sapevi, lei no o è un'attrice professionista cosa di cui dubito.» Passo la mano libera lungo la sua schiena e le accarezzo la pelle, morbida e vellutata proprio come l’ho immaginata per tutta la settimana.
Guardo l’ora: le nove e mezzo. Accidenti come vola il tempo! Mezz’ora è passata in un lampo. «Sei una cattiva ragazza, lo sai?» dico col tono più neutro che riesco a trovare. Lei fa sì con la testa. «E meriti una punizione anche perché non mi hai mandato un belfie fatto bene, come avevo chiesto?» Lei mugola qualcosa, ma decido di non toglierle la ball-gag e mi avvicino alla sua testa. Emana un profumo di viole e lavanda che mi procura un capogiro. «Puoi solo dire sì o no, con la testa» sussurro. Le si ferma. Scuote la testa. «Ah no? E quindi secondo te un selfie del tuo lato B si ferma alla metà superiore?» lascio scivolare il battipanni lungo la schiena, fino ad appoggiarglielo sulle natiche. Fremono di nuovo. Le assesto un colpetto leggero, per farle saggiare lo strumento. Lei scuote di nuovo il culo, mugola un po’, fa sì con la testa. «E tua madre sapeva di essere ripresa, quando t’ha fatto spogliare in lavanderia prima di legarti alla panca?» Lei scuote la testa. «Allora per il belfie fatto male prenderai altri dieci colpi, oltre quelli già annunciati. Poi penserò a come punire quello che hai fatto a tua madre.» Alzo il battipanni, lei affonda la faccia tra le lenzuola. «Preparati, perché tra poco piangerai come una ragazzina» dico e poi le assesto il primo di una lunga serie di swing via via più intensi, veloci al punto che lei non riesce a mugolare “AH!” che il successivo ha già arrossato le sue natiche. Dopo la decina di colpi promessi, di quelli che considero leggeri, ne tiro uno medio. Finalmente urla, anche se la pallina che ha in bocca non le permette di esprimersi appieno. Fingo di tirare un altro colpo, lei si contrae, poi vado giù con tutta la forza del braccio, una sola volta. Il battipanni la sculaccia con uno schiocco potente, come il suono di un bacio amplificato mille volte. Vedo le sue natiche colorarsi col tipico disegno a maglie, segnate dal vimini; la treccia scivola di lato. Alzo lo strumento e mi preparo a colpire ancora. Lei si contorce e tenta, invano, di liberarsi dalle manette. «Vacci piano con gli strattoni, signorina: serrature a parte le manette che ti bloccano sono del tutto simili a quelle in uso alle forze di polizia. Se tiri così rischi solo di farti male ai polsi.» Mi prendo una pausa e le sfioro le cosce con la mano libera. Risalgo su fino all’incavo tra le gambe che trovo bollente e umido. Il suo respiro si fa più intenso. Poi appoggio la giacca sull'unica sedia presente, mi tiro su la manica della camicia e le dico: «Ogni cinque minuti avrai la possibilità di parlare. Se confesserai mi mostrerò diversamente clemente.» poi mi viene da aggiungere «Hai scelto una parola ben curiosa "rigore". Se non lo chiederai tu, sta tranquilla che sarò io a provvedere!» Ammiro il risultato di questo primo giro e decido che sarà proprio una mattinata piacevole. Per entrambi.
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