La finestra sul cortile

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    Spankee

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    Il mio nome è James Brown di professione scrittore, come spesso accade a tutti quanti, sul viale del tramonto della vita, di tanto in tanto alla mia mente riaffiorano i ricordi di fatti vissuti nel passato ed a volte anche i rimpianti di quello che poteva essere e non è stato.
    Proprio seguendo il filo di uno di questi ricordi ripensai a quella primavera del 1870, allora vivevo a Londra, quando ancora la rivoluzione industriale faceva sentire pesantemente i suoi effetti negativi sull'atmosfera, infatti, a quell'epoca l’aria che si respirava in città era malsana, e per questo aiutava certo la mia salute e non mancava nemmeno di deprimere ancora di più la mia ispirazione di scrittore che in quel periodo era un po’ latitante.
    Fu proprio allora che un mio amico, un italiano, vedendomi in difficoltà, diciamo così, letteraria, mi fece una proposta che in un primo momento mi sorprese ma che, col senno del poi, oggi posso dire che sia stata una delle cose più belle che mi sia capitata nella vita.
    Mi disse che, avendo una casa a Roma, sua città di provenienza, ed essendo questa momentaneamente vuota, sarebbe stato ben felice di affittarmela per i mesi estivi, affinché, magari grazie all’atmosfera magica della città eterna, potessi ritrovare l'ispirazione che fino a quel momento aveva fatto di me uno scrittore molto conosciuto e prolifico.
    Istintivamente accettai la proposta dell'amico, più che altro per realizzare un vecchio sogno che accarezzavo da molto, visitare l'Italia e soprattutto Roma, ma certamente anche allettato delle lodi per il clima, per i monumenti e per la gente che tanto il mio amico aveva tessuto parlando della sua città.
    Il viaggio non fu dei più piacevoli, più che altro per le tappe forzate che avevo dovuto affrontare per coprire la grande distanza che c'era da Londra a Roma con i mezzi dell'epoca, prima il viaggio in nave da Bristol a Calais, poi l'attraversamento di tutta la Francia, le Alpi e finalmente l'Italia.
    Dopo una breve permanenza a Firenze, servita a riprendere le forze, avevo affittato una carrozza comoda che portasse sia me, che i miei molti bagagli senza troppo trambusto, il che mi permise di arrivare a Roma abbastanza tranquillamente.
    Non appena la carrozza oltrepassò le mura della città eterna fu come se un pugno mi avesse colpito lo stomaco, togliendomi il fiato, tanto era lo stupore di vedere i colori caldi del tramonto, di sentire i profumi di una città meravigliosa come Roma.
    La casa del mio amico era situata nel quartiere Testaccio, ed ubicata in un uno di quattro palazzi uniti fra di loro in stile liberty con grandi finestre che davano sulla strada e con un grande cortile interno sul quale si affacciavano i balconi ed altre finestre, da alcuni dei quali scendevano panni di ogni genere stesi ad asciugare.
    Anche l'appartamento , ammobiliato con gusto, di cui avevo potuto prendere possesso, usufruiva nella cucina di un bel balcone con vista sul cortile, mentre nella camera da letto vi era una grande finestra.
    Dopo essermi stabilito ed organizzato passavo le mie giornate girovagando per la città, in cerca d’ispirazione, ed osservando con famelica curiosità ogni aspetto di ogni angolo di Roma, che per me forestiero era sempre nuova e sempre pronta a sorprendermi.
    Ripenso alle lunghe passeggiate in botticella che mi portavano nei luoghi più suggestivi, che, non solo in quel tempo, raccontano quella magnifica città, le sue storie e legende.
    L’incantevole parco di Villa Borghese, la Galleria Colonna ritrovo di artisti e letterati, il Colosseo e i fori Imperiali, antiche vestigia di una millenaria civiltà, e dove ora pascolavano pecore e capre, o ancora il giardino degli aranci, sulla passeggiata archeologica frequentato da molte coppiette in cerca di un luogo al tempo stesso discreto e romantico.
    Le mie giornate passavano così, in quella pigra quiete tipica di questa città, ricca di storia e di passato che ad ogni angolo fa capolino; e quindi che lo volessi o no, con il passare del tempo, il suo fascino mi prendeva sempre di più.
    Poi seguendo il filo dei miei ricordi mi scoprii a sorridere tra me e me, perché essi si soffermarono e concentrarono ricordando un particolare assolato ed afoso pomeriggio di agosto.
    Saranno state le tre del pomeriggio, io, come al solito facevo il mio riposino pomeridiano, pennichella come la chiamavano qui, quando all'improvviso il silenzio di quel caldo pomeriggio fu spezzato da grida e suppliche femminili provenire dal palazzo di fronte a quello che abitavo, ed a quelle grida rispondevano urla e imprecazioni maschili.
    Risvegliato da tanto baccano, in quell'ora così inusuale, e curioso di conoscerne l'origine mi affacciai alla finestra, e guardando verso i due balconi accanto al mio appartamento notai due comari che, affacciatesi anche loro, se la ridevano tra chiacchiere e battutine.
    Una diceva: <sentila … ah ah ah ah ah … sentila come grida la sora Rosa!>
    <eh no? Pare che er sor Rinaldo la voja scannà … ah ah ah ah ah!>, disse l'altra aggiungendo :<sicuramente ne ha combinata una grossa sentirai che concerto fra poco >.
    Rispose la prima: < E che nun lo so? E perché seconno te me so' messa affacciata ar barcone co' 'sto cardo che te schiatta … pe' godemme lo spettacolo!>
    E la seconda di rimando: <eh sì perché io seconno te sto qua pe' bellezza, e chi se lo perde lo spettacolo che ogni tanto ci offre la nostra bella sora Rosa … ah ah ah ah, e che spettacolo ah ah ah ah; povera sora Rosa … ah ah ah ah, nun passa settimana che er sor Rinaldo je scalla le chiappe che dopo pare che ce se possa coce le ove pe' quanno so' rosse ah ah ah ah, ecco, ecco vedi vedi ecchilo che sta a spostà le tenne!>
    Distratto dal ciarlare delle due comari per poco non mi accorgevo di quanto stava accadendo nell'appartamento di fronte, da dove provenivano le grida, ad un tratto un omone grande e grosso sulla cinquantina che, a quanto dicevano le due comari, doveva essere er sor Rinaldo, con violenza spostò entrambe le tende di quella che era la loro cucina, offrendomi così una vista completa di quanto accadeva.
    Poi, dopo aver preso una sedia e averla posta bene in vista, afferrò per un braccio una donna di circa quarant'anni, molto più bassa dell'uomo, dato che gli arrivava appena alla spalla, e dopo aver messo un piede sulla sedia, si coricò la malcapitata a pancia sotto su una coscia, in quella posizione i piedi della donna neanche toccavano terra.
    Quindi ignorando gli strilli e le implorazioni, quello che sicuramente doveva essere il marito, con una mano le serrò un braccio dietro la schiena e senza alcun riguardo con l'altra le sollevò tutte le sottane dietro, esponendo alla vista di chiunque in quel momento si trovasse affacciato, la magnifica visione delle matronali natiche della consorte coperte da larghi mutandoni con lo spacco dietro, come si usava all'epoca, e retti soltanto da lacci legati a fiocco dietro la schiena che l'uomo si affrettò a sciogliere, facendo sì che i mutandoni cadessero a terra.
    Lo spettacolo a cui stavo assistendo, era di un genere mai visto prima di quel momento, e certo fu una cosa che non dimenticherò mai, una vera punizione domestica con in bella vista due splendidi globi gemelli, grandi e bianchi come il latte, tremanti che attendevano le calde attenzioni che di lì a poco avrebbero ricevuto.
    L'uomo, pur sapendo di mettere in grande imbarazzo la moglie, che continuava a strillare e supplicare, alzò il braccio destro e con la sua manona colpì con vigore la natica destra della donna che ripose allo sculaccione con un grido.
    Cominciò allora una sinfonia di severi e brucianti sculacciate che risuonava per tutto il cortile ed alle quali facevano da controcanto non solo gli strilli della malcapitata, ma anche le risate delle due comari e di tutti coloro che, richiamati dal rumore degli sculaccioni e dalle grida si erano affacciati ai balconi ed alle finestre e si stavano godendo lo spettacolo della più memorabile, superba e cocente sculacciata alla quale avessero mai assistito.
    La manona dell'uomo colpiva senza fatica con vigore e severità i due globi che via via che la sculacciata proseguiva diventavano sempre più rossi e sicuramente il bruciore che doveva provare la povera donna, sotto quella granula infernale, andava gradatamente aumentando, lo si capiva da come muoveva all'impazzata le gambe, ma inevitabilmente, così facendo metteva in bella mostra anche la più intima e recondita parte del suo corpo coperta da una folta peluria scura.
    Io intanto semi nascosto dalla tenda non perdevo un solo istante di quella cocente ed umiliante punizione che, mentre proseguiva, risvegliava dentro di me come un fuoco alle parti basse, sentivo la mia virilità quasi esplodere; pur cercando inizialmente di sopprimere quell'istinto animale, ben presto mi lasciai sopraffare, e sbottonata la patta dei pantaloni, lo tirai fuori e con la mano ci giocai finché un violento piacere mi travolse come un fiume in piena, poi, frastornato da quanto accaduto, per via lo spettacolo così nuovo per me, chiusi subito la finestra e mi sdraiai inerme e senza forze sul letto e mi addormentai.
    Durante quel sonno sognai!
    Sognai della sora Rosa coricata sulle mie ginocchia, sognai di alzarle le sottane, sognai di metterle a nudo l'opulento e giunonico fondoschiena e di sculacciarlo ancora ed ancora fino a farlo diventare rosso, rovente, sotto la mia mano, fino a farla gridare e supplicare.
    Quando mi sono svegliato il sole era ormai tramontato, poco dopo mi alzai, dopo che la mia cameriera aveva bussato alla porta per avvertirmi che la cena era pronta.
    Quanto accadde in quel pomeriggio di agosto si è poi ripetuto ancora altre volte nel periodo passato a Roma, ed ogni volta fu per me un godimento ed una tortura, che si rinnovava anche e soprattutto quando dalla finestra vedevo passare la sora Rosa, ed in me si faceva prepotente il desiderio, ahimè mai soddisfatto essendo lei una donna sposata, di coricarmela sulle ginocchia.
    Rimasi a Roma fino al dicembre dello stesso anno per poi ritornare a Londra per le feste natalizie e lasciando la città eterna per non farvi più ritorno.
     
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