Clarissa e le donne di paese

Racconto a quattro mani: Gius e Clarissa Spankee (cui vanno i crediti per il soggetto)

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    Un racconto spankofilo
    -Based su fatti realmente accaduti

    “Dentro il buio del locale…”

    La musica le colpiva la testa come un martello, alzarsi dal divanetto le pareva impossibile

    “Capì che gli era scesa la catena…”

    Le parole di una vecchia canzone che aveva sentito da bambina in qualche radio le si muovevano come una pallina da flipper nella testa, mentre lei cercava di finire l'ultimo drink...

    “E che era meglio muoversi….”

    Madonna. Quanto poteva essere pesante una testa?

    “Uscire fuori, lontani da casa, al freddo della sera….”

    Ecco, solo questo: uscire da quest’inferno. Dov’è l’uscita?

    Alla fine di un corridoio che pareva buio come un pozzo, trovò quel che cercava. Aria, buio, casino almeno un poco sopportabile, perdio.

    In uno spiazzo umido e brutto, pochi ragazzi si riunivano in gruppetti parlando del più e del meno, con quasi tutti una sigaretta in bocca. Clarissa pensò fosse meglio stare da sola, per non avere la tentazione di ficcare la lingua in bocca al meno schifoso e riportarlo dentro a bere, ma allo stesso tempo a lei serviva una sigaretta, e non avendone più, si vedeva costretta a chiederne una a qualcuno li fuori.

    Dai, Clarissa, va' avanti. Qualcuno ne avrà una pure per te, fatti coraggio e chiedi.

    Mentre barcollava avanzando si fermò, notando qualcuno dal profumo dozzinale ma assai familiare, che le fece avere una scossa proustiana non del tutto piacevole; una scossa fatta di trasgressioni, rimproveri, crescita ribelle e conflitti, spesso risolti con dolorose punizioni materne.

    Aveva appena scacciato, facendo appello all’alcol, questi ricordi pessimi, che i suoi occhi faticosamente sollevati in alto incontrarono gli occhi sgranati di Chiara, sua sorella.

    La voce di Clarissa non seguì esattamente il cervello, quando disse: “Ehi, sorè, che fai qua. Mamma ti ha dato libera uscita?”.

    La risposta fu in poche claudicanti e imbarazzate frasi: “Eh, uh, chi si vede, ciao Clà. Anche tu qua, eh? E beh, ecco, sì, mamma mi ha permesso di uscire. È stata carina sai? Ora mi viene a riprendere, anzi, eccola, ci si vede Clà”.

    Clarissa si sentì fisicamente penetrata dallo sguardo della madre sulla pancia scoperta, e si sentì di ringraziare il cielo che lo stesso sguardo non arrivasse alla sua faccia sfatta. Il ricordo degli schiaffi presi sul sedere sarebbe stato quasi più doloroso di riceverne uno vero. Fuggire.

    “Hey, ciao ma’, ciao Chiara, io rientro”. Prima ancora di cogliere qualsivoglia segnale della disapprovazione che la madre stava facendo cadere sul piazzale a mo’ di attacco pokemon velenoso, Clarissa si fiondò nell’antro scuro del locale, desiderosa di bere e leggera di quattrini, ma non senza sentire sul culo uno strano pizzicore, come di un solido rimprovero materno. Prima ancora di essere intrappolata in qualche altro pensiero stradevole, andò a chiamare L., il ragazzo con cui si erano messi d'accordo per tornare a casa e per dormire quella sera.

    Dopo un’altra ora alcolica se ne andò con lui. “Guida tu, che io son troppo sfatta” disse.

    Arrivati nella casetta a due piani di lui (dei suoi, per la verità), e raggiunta faticosamente la camera da letto nella porzione superiore, a lei sembrava che dormire fosse diventata all’improvviso l’attività più desiderabile della terra; più con i piedi per terra, L. aveva altre idee, non era sicuramente quella di dormire. Non appena si misero nel letto, L. cercò di concludere la serata in ogni modo, toccando e infilando le mani sotto il top del pigiama di Clarissa che si vide costretta a rinunciare al sonno non appena il capezzolo destro le comunicò una sensazione di dolore, sotto la pressione delle dita di lui, strette in una morsa che non pareva fatta di carne, ma di acciaio freddo e poco malleabile.

    Il tutto continuò, cercando di non fare troppo rumore, (anche se nessun altro era in casa), con un piacevole non troppo violento accoppiamento, con tanto di morsi e segni di unghie sui loro corpi.

    I segni erano estetici, non si poteva negare. Siccome a Clary tutto si poteva rimproverare, meno che l’ingratitudine, e il regalo di un orgasmo al morso era quanto di meglio potesse sperare, si mise a raccogliere le ultime energie disponibili, fino a quando la stanchezza prese il sopravvento. Per il resto lasciò fare a lui: completamente e piacevolmente nella calda notte si mise a pancia sotto, sostenuta da un cuscino e si voltò solo poche volte per dare degli sguardi d'approvazione a lui.

    Dopo un tempo infinito dopo, non ancora svuotati di voglia, ma entrambi vinti dal dio Morfeo, presero un sonno affine a un trapasso.

    ---La mattina dopo---
    “Cazzo, è tardi. Devo andare a lavoro tra poco più di 10 minuti. Claryyy, dai svegliati, io devo andare via. Sveglia”.

    “Non ho voglia, dai tanto io dormo ancora un po e vado, te vai non preoccuparti”.

    “Va bene, ma cerca di andare via prima delle 10, senno sono dolori”. Non che L. avesse detto proprio così, ma Clarissa così capì e non diede importanza, cadendo di nuovo nel sonno.

    Passano le ore, e Clarissa si svegliò di soprassalto sentendo dei rumori provenire dal basso, e penetrare agevolmente attraverso la porta aperta della camera (“perché la porta è aperta??”).

    Con terrore si avvicinò all’orologio: le 12 passate. (“Cosa aveva detto L.? Boh… non ricordo..”) Aveva detto: “alle dieci mia madre torna a casa e probabilmente con qualcuno” (strano come i ricordi da sbronzi tornino chiari...).

    “Dai, Clary, calma, anche se senti rumore di tacchi e un mugugnare dal basso. Mutande, eccole. Pantaloncini, scarpe, top… manca qualcosa? Si! Cosa ci va sotto il top? Mica posso andarmene senza il reggiseno, con quello che è costato! Dove straporco è il reggiseno??”

    Presa dal panico e non sapendo cos’altro fare, Clarissa uscì dalla camera, rasente i muri come un geco.

    Arrivata alle scale, sporgendo il collo, riuscì a intravedere in basso, nell'ampio soggiorno al piano terra, la figura di una donna che sembrava familiare, alta e segaligna, con le braccia incrociate al petto, e nella mano ossuta il dannato reggiseno.

    Parlava con qualcuno, ma Clarissa non riusciva a vedere l’interlocutore.

    “Ah, dovevi vedere come dormiva tranquilla, con vestiti tutti messi per terra, neanche fosse casa sua”.

    “A L. l’ho detto mille volte, di non portarmi queste troiette in casa, e soprattutto senza avvisare, senno magari potevo concedeglielo! Quando torna gli faccio vedere io di ricordarsi la prossima volta!” (“Uh oh, era la madre di L.!”).

    “Sai chi mi pare che sia, questa tipella in questione? La figlia di ….” (“Dio, queste conoscono mia madre. Che Chiara abbia fatto la spia? Caneladro, le due amiche del cavolo di Burraco. Dannate maledette”).

    “Certo che è lei, ho visto la macchina qua sotto, con una macchina sportiva non poteva altro che essere lei”.

    “Ah, cara te. Son sempre guai. Mia figlia pure esce con quelle poco di buono la sera. L’altro ieri mi è tornata a casa mezza sbronza e l’ho fatta tornare sobria con una mezz'oretta di passate con la cinta. Alla fine del trattamento aveva il sedere più nero del trucco che si mettono queste sceme per andare in giro oggi”.

    “Ecco, poi vanno in giro praticamente nude, è inaccettabile veramente…”.

    “Ah guarda, su questo non ho problemi. Ieri prima di farla uscire l’ho fermata e l’ho guardata per bene. Ok, le ho detto, ora abbassati i pantaloni e vediamo che mutande ti sei messa. Rossa è diventata, e esitando, sapeva di avere qualcosa di inaccettabile addosso. Ma io non mi faccio commuovere. L’ho spinta al muro e giù tutto. Pensa, voleva uscire con una specie di tanga nero. Le ho detto che se voleva andare a fare la poco di buono poteva, ma poi al ritorno le facevo le chiappe più nere del tanga, tanto stavo già a metà lavoro dopo l’altro ieri,” disse sorridendo.

    “Ora però occupiamoci delle chiappe che stanno abusivamente qua!”

    Ia frase detta in quel modo parve a Clarissa una frustata. A parlare era stata la madre di L., e il tono, l’intensità e la minaccia parevano clonati da quelli di sua madre. Decise di prendere il toro per le corna, affidandosi alla faccia tosta che l’aveva salvata tante volte (non da sua madre, da lei mai, ricordò preoccupata).

    Scese quindi le scale alla maniera di una dama sabauda, pur priva del benché minimo orpello e pensò tra se stessa:

    “No, non si può pensare che due solide matrone sabaude temprate dal freddo e portatrici, nel DNA, di antiche lotte contro la fame e il gelo, lasciassero una ragazzina (cresciuta oltre i venti anni, ma questo poco importava) proferisse verbo”.

    Così l’aria nei polmoni di Clarissa venne tagliata dal suono tagliente di quella della madre di L.: “alla buon’ora, allora sei viva. Vieni, vieni pure qua signorina, che dobbiamo fare un discorsetto”.

    “Ehm, salve, guardi signora che…” (disse Clarissa scendendo le scale trascinata da una forza di autorità materna i cui agganci non aveva mai del tutto sciolto dalla sua anima).

    “Non guardo niente. Primo sei in casa mia E NON FIATARE, e secondo, visto che qui non c’è quella santa donna di tua madre, ora avrai un colloquio con noi due, ci devi dire un po di cose”.

    “Sì, certo, quello che vi pare, ora però se può ridarmi il mio reggiseno, che cosi tolgo il disturbo. Per il resto prendetevela con L. e non scassate a me, che poco ci incastro, grazie”.

    Clarissa non era certo una priva di riflessi, ma la mano della donna parve scomparire, e lei provò immediatamente un dolore lancinante all’orecchio destro.

    “Hey, guardi che.. cosi mi fa male!”.

    E le faceva un male cane, visto che il lobo del suo orecchio era trafitto da un dilatatore di buone dimensioni, frutto del carattere giovanile della ragazza. “Mi fa male, mi lasci”.

    “Se scegli di usare questi orecchini da drogata, affari tuoi, certo non miei” e tirava ancora di più “Ora, cara ragazzina, qui sei in casa mia e comando io. Il reggiseno per ora te lo puoi scordare, prima devo vedere con quale straccetto ti sei coperta sotto. Dopodiché cominceremo, io e la mia amica, a farti entrare un po’ di decenza in zucca. Vai contro il muro”. “Ma io…” “Nell'angolo! E se ti giri prima che te lo dica io, ti prendi uno sculacciata secca! Forza”.

    La parola sculacciata le fece più male di una percossa vera; per la prima volta da quando aveva lasciato la casa di sua madre, si sentì, pur non avendone motivo reale, totalmente senza scelta.

    Quelle due donne le facevano paura, non per quello che potevano farle (anche se erano chiaramente energiche e non sarebbe stato facile sopraffarle), ma perché la facevano sentire come se dovesse rimettere in discussione la sua vita; sentì ad un tratto tutta una serie di dolori come se se ne accorgesse ora: il lobo dell’orecchio, intanto, come se il dilatatore fosse di fuoco, e come se fosse davvero una colpa portarlo.

    Poi il sedere. Quello che L. aveva "usato" senza troppi complimenti, e quasi si era scordata di essersi sentita non solo presa con strazio, ma peggio, "una poco di buono".

    E quelle due donne odiose, sorridenti con malignità, infami pure loro, sicuramente, ma di una maglignità all'antica, fatta di trasgressioni e punizioni in un ciclo infinito, sembravano perfino belle: due streghe che avrebbe bruciato sul rogo, ma che adesso sembravano enormi, invincibili.

    Si rassegnò, e si mise così, spaventata, priva di ogni residua dignità ribelle, faccia al muro.

    La madre di L. solo allora le lasciò l’orecchio e, con un gesto secco e veloce, le abbassò i pantaloncini, scoprendo, sopra il sedere di lei, un paio di brasiliane che lasciavano pericolosamente scoperta la pelle.

    “Via, pensavo peggio, anche un po’ di pizzo, ehi, ho detto stai ferma signorina!”.

    Ad un piccolo accenno di ribellione di Clarissa fece subito seguito una serie di dolorosi sculaccioni sul sedere, dati con tutta la forza sulla parte bassa e indifesa delle natiche.

    Girata verso il muro, a Clarissa sembrò che le mani di lei fossero enormi, quasi maschili: disperata, già dolorante dopo quel paio di colpi, cominciò ad agitarsi e a tentare una fuga senza sapere dove, ma ovunque quella megera non potesse colpirla con quelle mani d’inferno.

    “Ferma lì” e la donna riprese il controllo della sua paziente afferrando il lobo dell’orecchio, già torturato “Visto che fai la bambina adesso le prendi sulle nostre ginocchia”. Detto fatto, sollevata da una forza sorprendente, Clarissa si trovò sulle ginocchia della donna, e il sollievo per il cessare del dolore all’orecchio fu sostituito da una scarica di sonori sculaccioni che rimbombavano nell’ampio open space come spari.

    “Smettetela, hey, ahiaaaa, non siete mia madre, hey, smettetela!” Clarissa aveva finalmente ritrovato un po’ della vecchia verve adolescenziale, ma ottenne solo di instillare nelle mani delle signore. Una autentica forza distruttrice, che si sfogava colpendo spesso lo stesso punto del sedere, ormai rosso come le rose che addobbavano pretenziosamente quello spazio vicino alle finestre.

    “Ma tu guarda che sboccata, che irrispettosa, che sgualdrina!”, la voce era stavolta della compagna di burraco della madre, che si alzò, e che immediatamente Clarissa vide tornare, quasi correndo, dalla cucina con qualcosa in mano.

    “Oddio, no, quello no, la prego, giuro che me ne vado!”.

    Quell'oggetto, era un semplice cucchiaio di legno di buone dimensioni, che però nelle mani ossute della donna pareva enorme, minaccioso, orribile. Clarissa ebbe paura: conosceva bene l’effetto di quello strumento sul sedere, ma si accorse subito di non poter abbandonare la posizione che le era stata imposta. Impotente, sentì che la donna segaligna le abbassava con una mano le mutandine, e priva ancora di provare una vergogna infinita al pensiero che due estranee le stessero guardando l’intimità, cominciò a sentire il legno del cucchiaio sulla pelle.

    Non erano colpi, ma coltellate. Tenuta ferma sulle ginocchia tra le possenti braccia della madre di L., era alla mercè della segaligna compagna, che dimostrava di avere grande pratica nello strumento. Dodici...tredici…quattordici, contava la malefica carnefice: “e tieni strette le cosce, non ci va di vedere le tue sconcezze”. Tenere strette le cosce, una parola, mentre il colpi arrivavano sulla parte bassa del sedere, ormai prossimo a virare verso il colore violaceo tendente al nero.

    Trenta, trentuno, trentadue….

    Ma che bisogno c’era, pensò Clarissa di contare, senza neanche dirmi quanti colpi saranno?? Si sentì disperata come se quella conta fredda e arida dovesse essere infinita. Si fermò, invece, a cinquanta colpi, mentre la punita si sentiva svenire, svuotata di ogni ardore e pentita di ogni peccato che l’avesse portata lì.

    “Ora, signorina, alzati, che non abbiamo finito”.

    Mentre si alzava, Clarissa si rese conto del significato di quelle parole e cercò, in tutti i modi, di non piangere a dirotto, dicendole: “No, signora la prego, davvero, non ce la faccio più, mi faccia telefonare a mia madre se proprio vuole dirglielo, per piacere. Ho capito la lezione, glielo giuro”. Quell’infantile evocazione della madre (che certo non avrebbe, se accolta, portato alcun vantaggio) cadde nel vuoto. Si trovò nuovamente trascinata per un braccio fino al centro della camera. Con terrore, vide che una delle donne stava rovistando nella propria borsa.

    La donna, la segaligna madre di S., si pose davanti alla ragazza e le mostrò l’oggetto tenendolo in bella mostra tra le due mani.

    “Questa, cara, è una spazzola da vestiti. È un po’ più grande di quelle da capelli e quasi non si usa più. In famiglia ce la tramandiamo e la usiamo ogni volta che una delle nostre giovani si allontana dalla retta via. Possiamo considerarla un correttore. Questo dico a S. ogni volta che la uso con lei, e sa il cielo quante volte mi tocca usarla”.

    Mentre la ramanzina proseguiva, la madre di L. prese il lembo inferiore del ridotto top di Clarissa: “Alza le braccia; ho detto ALZA LE BRACCIA”. Impotente la ragazza si lasciò sfilare quell’ultima barriera di decenza, lasciando al vento i piccoli seni.

    Le due streghe si accomodarono senza fretta su due sedie, una di fronte all’altra, le ginocchia che quasi si toccavano.

    “Vieni qui e di corsa, non abbiamo mica tutto il giorno da perdere con te”.

    Clarissa si trovò, a sdraiarsi sulle gambe delle due e a rabbrividire mentre la pelle nuda, si scontrava con il tessuto ruvido delle loro gonne.

    Uno sculaccione arrivato a bruciapelo la riportò ad una realtà di terrore. “Aspetta, questa è una gigantessa. Tu, signorina, alzati”. Ridotta da una specie di confusione mentale ad una obbedienza cieca, Clarissa si alzò di nuovo, per vedere le due alzare le gonne sopra le loro ginocchia di un bel po’.

    Il dito indice della segaligna le indicò che poteva accomodarsi nuovamente e dopo averlo fatto capì il senso: la sua pelle, sul nylon dei collant, faceva un effetto di attrito che le impediva di andare troppo in avanti, e allo stesso tempo sentiva le sue gambe vicino alla pelle delle due donne con un disagio nuovo. Scacciò l’idea di eccitarsi come si scaccia l’idea dell’incesto, ma i piccoli movimenti delle due le impegnavano le pieghe delle intinità in un modo che era reso più disagevole e quasi doloroso dallo sfregamento con i collant.

    Cessò presto di pensare sconcerie, non appena le proprietarie delle ginocchia riniziarono a sculacciarla senza pietà.

    Anche quella che usava il braccio sinistro pareva non mostrare alcuna difficoltà a colpire la parte bassa del piccolo sedere di Clarissa, che si sentì, sotto la doppia scarica di colpi, priva di aria nei polmoni e cercò il pavimento con le mani prima e poi, agevolata dalla sua notevole statura, con i gomiti, con il risultato di far trovare il didietro ancor più in alto e ancora più esposto, nella parte bassa, ai tormenti manuali delle signore.

    Fu allora che la segaligna, ritenuta sufficiente l’esperienza di palmo, ritenne di usare la spazzola. L’urlo di Clarissa squarciò l’aria. Aveva provato spesso le sculacciate, ma quello era peggio, era come se lo strumento fosse incandescente. Il dolore di ogni colpo le arrivata, scivolando sulla schiena piegata, dritto alla testa. Per dieci, quindici, venti volte. Poi, la madre di L., che si era fermata e si occupava solo di tenere una mano ben ferma sulla schiena della ragazza, pensò che potesse bastare. La pelle della ragazza era di quel colore nero che lei aveva provocato tante volte e di cui conosceva bene il dolore per essersi guardata (un po’ di vergogna le passò sulla fronte) il sedere allo specchio dopo ogni punizione subita da ragazza.

    “Per me può bastare cosi, non pensi?”.

    Ma la segaligna non dava segno di volersi fermare nonostante Clarissa urlasse ad ogni colpo con una forza che avrebbe fatto tremare il cuore di un torturatore medievale.

    “Assolutamente no. Deve capire bene come funziona con noi!”. E il tono della voce non era da Burraco e tè, tanto che la segaligna dovette bloccarsi e rimettere ordine nei pensieri intorbiditi, prima di ritrovare un tono di voce e parlare, più per recuperare un po’ di autorità che non per effettiva necessità: “Ora rivestiti e vattene, qui abbiamo altro da fare. Ah, poi chiamo tua madre. So che ieri ha dovuto portare a casa tua sorella, e non so come è andata con lei, ma penso che ormai sia libera”.

    La madre di L., con le braccia incrociate e sguardo autoritario, guardò Clarissa mentre si rimetteva in piedi (rimetteva insieme i pezzi, si sarebbe detto meglio). Le passò una mano sulla pelle ormai piena di lividi, e pensò che magari portare una crema, o del ghiaccio, non fosse cosi male, ma un atavico istinto la fece stare ferma; lei non aveva mai avuto di queste grazie, da nessuna delle varie zie, amiche, parenti in genere che l’avevano messa in riga nei suoi anni scapestrati. Distolse successivamente lo sguardo, per non far trasparire il turbamento, dal sedere di Clarissa mentre lei raccattava le mutandine e se le rimetteva, incurante della pudicizia e della nudità frontale.

    Clarissa, da parte sua, aveva dentro il cuore un tumulto di odio ed eccitazione estrema, che traspariva nel tremore delle mani mentre con difficoltà girava per tutta la stanza raccogliendo i vestiti. Raccolse infine anche le chiavi della macchina, sopra un tavolino, e senza il coraggio di incrociare alcuno sguardo, apri' violentemente il portone, e con la velocità che le consentiva il dolore ai glutei, si diresse verso la sua macchina.

    Successivamente, nel mentre che Clarissa era di ritorno a casa, le due signore chiamarono sua madre, spiegandole tutto cio' che era successo quel fatidico primo pomeriggio. La risposta della madre fu molto rassicurante, congratulandosi con loro per il lavoro autoritario eseguito.

    Non appena la chiamata terminò, la madre di Clarissa si mise in contatto con lei: “Ciao Clary, mi ha chiamato la madre di L., mi ha detto che hai fatto ieri dopo che io e Chiara siamo tornate a casa, e sei fortunata a non dover tornare qui, perchè fosse per me te ne darei altre”. “Ma io..” “Niente ma, dovevo portarti a casa prima quando ti ho vista! Ora va a casa e vedi di non fare danni, o mi costringerai a salire per dartele di persona, sono stata chiara?”

    La chiamata si concluse con un “Si, mamma, prometto.” Clarissa fece ritorno a casa, dolorante, e da quel giorno non rivide più ne L. nè sua madre e l'amica.

    Scritto da Clarys & Gius
     
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    Bravissimi i due scrittori.
    sono certa che Clarys ha messo sicuramente il meglio
     
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    Sicuro. Ma quella sssstrogota non vuole continuare a scrivere
     
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    dammi il suo numero che io la convinco
     
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    Ci ho appena litigato, non è il caso
     
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    CITAZIONE (Gius Carver @ 17/4/2024, 23:00) 
    Ci ho appena litigato, non è il caso

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